venerdì 22 febbraio 2013
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​Un modello organizzativo giunto al capolinea. Ma anche un momento storico nel quale non emergono alternative vere e valide. Lo scenario che emerge dal libro di Norberto Bottani, esperto di politiche scolastiche e già alto funzionario dell’Ocse, non lascia certo tranquilli. E così Requiem per la scuola? (il Mulnino, pagine 146, euro 13) offre al lettore una analisi dolorosa delle condizioni in cui versa la scuola nel mondo.Partiamo dalla domanda contenuta nel titolo del suo libro. Esiste una risposta al quesito?«Certo. Il requiem è per la scuola statale così come è ora: statale e con un modello legato all’Ottocento. Il requiem di cui parlo è per questo tipo di modello in agonia, che sarà dolorosa, combattuta e lunga. Ma anche inevitabile. Del resto le premesse che hanno dato vita al modello di scuola statale non esistono più, come quello di una scuola centralista e statalista. Ovviamente la scuola ci sarà sempre per trasmettere conoscenze e valori, ma probabilmente non nella forma e nell’organizzazione che conosciamo».Nel libro sostiene che l’unica ragione di esistere per una scuola pubblica è che riesca a eliminare le discriminazioni sociali davanti all’istruzione. Non le pare una tesi molto forte?«No. Tutti i dati concordano in questo. Dimostrano che alcuni sistemi hanno in parte ridotto il divario nel successo scolastico tra studenti di ceti sociali svantaggi rispetto a quelli di un tenore economico superiore, ma nessun sistema è riuscito a equilibrare significativamente il divario tra i due gruppi. Ci sono sistemi scolastici che ci riescono meglio, ma il traguardo rimane lontano. Le indagini internazionali dimostrano che si può ancora migliorare, ma senza riuscire a eliminare il divario».Ma non le sembra utopistico pensare che la scuola possa davvero cancellare quelle che lei definisce discriminazioni sociali di fronte all’istruzione?«Un tempo tra le generazioni era possibile fare dei passaggi verso l’alto, ma le condizioni attuali sono differenti e non lo permettono più o molto meno. Chi governa il sistema scolastico deve avere obiettivi chiari su quale strada intraprendere. Uso l’esempio del sistema ferroviario: si tratta di decidere se investire solo in Alta velocità trascurando il resto della rete, oppure privilegiare alcuni tratti nazionali, oppure delle linee collegate a gruppi di utenti specifici».Efficienza, equità, eccellenza. Dal suo osservatorio sono elementi davvero conciliabili tra loro?«Assolutamente sì. Lo dimostrano con grande chiarezza le indagini internazionali che hanno come focus i sistemi scolastici. Oggi si può dire che è possibile conciliare queste tre dimensioni, non limitando gli aspetti di eccellenza, senza trascurare, però, nessuno, permettendo a tutti di padroneggiare strumenti e conoscenze ritenute necessarie. E anche di poter gestire in modo efficiente e senza sprechi i fondi destinati al sistema educativo».Ma la crisi economica incide sui fondi per la scuola. Quale scenario emerge dal suo libro e quale futuro possiamo attenderci per il sistema formativo?«Credo che si debba inventare qualcosa di nuovo. Un servizio statale alternativo a quello attuale, che conceda una vera e piena autonomia organizzativa alle scuole, superando centralismo e soprattutto lo statalismo nella gestione degli istituti stessi. È una necessità, anche se devo ammettere che attualmente non vedo un modello differente capace di imporsi sugli altri. Non vedo apparire una soluzione generalizzata, anche se le Charter Schools, che ricevono denaro pubblico, ma hanno una ampia autonomia, potrebbero essere una via. Insomma nei Paesi in cui il sistema non è completamente bloccato qualche soluzione viene tentata, ma il più delle volte appare come un accanimento terapeutico per mantenere in vita il malato, piuttosto che proposte davvero innovative».La scuola, scrive nel libro, non più come luogo in cui apprendere, ma come parcheggio di giovani spesso «dimenticati» dalle famiglie. Parole forti, non trova?«Quando nel libro parlo di scuola come parcheggio, ammetto, di aver pensato più all’aspetto della sicurezza fisica per i ragazzi, in uno scenario familiare di nuclei disgregati o con entrambi i genitori lavoratori. Ecco allora che la scuola, il servizio pubblico, diventa un luogo nel quale lasciare in sicurezza i propri figli, anche se non posso dimenticare i terribili episodi accaduti negli Stati Uniti. Capisco che quest’idea di parcheggio propone una visione minimalista della scuola, che sicuramente può dispiacere a quei docenti che si impegnano nella loro professione. L’impressione, però, che emerge dalle indagini internazionali è comunque che la scuola non sia il centro della vita e degli interessi dei ragazzi».In questo scenario quale posto hanno le nuove tecnologie?«Sono potenzialmente delle bombe atomiche, dirompenti nella scuola. E non solo nella società occidentale, ma anche nei Paesi in via di sviluppo. L’insieme delle nuove tecnologie è talmente diffuso da offrire possibilità di apprendimento del tutto imprevedibili fino a qualche anno fa. Segnano la fine di un modello di trasmissione dei saperi, con un accesso alle conoscenze in ogni luogo e in ogni momento. La scuola statale sotto questo profilo è in forte ritardo e cerca di rincorrere la novità».Come esce l’Italia dalla sua analisi?«Nel libro faccio solo degli accenni all’Italia. Ma complessivamente penso che il sistema scolastico italiano sia in ritardo, profondamente ingiusto e immobile da 50 anni nonostante tutte le riforme messe in campo e spesso mai attuate. Certo ha avuto una espansione quantitativa nell’iscrizione e frequenza, ma appare in forte ritardo rispetto al treno di altri Paesi».
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