venerdì 13 novembre 2020
Dall’inferno del ghetto a leggenda dei Philadelphia Sixers. Caduta e rinascita dell'ex campione Nba, cresciuto senza padre, sempre alla ricerca di una risposta più grande
Allen Iverson, 45 anni, play leggendario dei Philadelphia 76ers

Allen Iverson, 45 anni, play leggendario dei Philadelphia 76ers

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Treccine, tatuaggi e crossover, quella finta spezza-caviglie con cui si è preso gioco anche della sua statura andando a scrivere il proprio nome tra i giganti del basket di ogni tempo. Allen Iverson è l’uomo che ha abbassato l’altezza dei sogni, autorizzando tutti quelli che come lui non raggiungono i 184 centimetri a credere nella strada che porta all’Olimpo della palla a spicchi. Lo chiamavano The Answer“ la risposta”, quella che lui aveva sempre quando le difese sembravano imperforabili. Ciò che invece non sapremo mai è dove sarebbe ancora potuto arrivare questo piccolo–grande fuoriclasse senza gli eccessi e le tante cadute nella sua vita fuori dal campo. È una questione amara che emerge anche dopo aver letto la biografia di Kent Babb Not a game (66thand2nd, pagine 336, euro 20) tradotta ora in italiano da Lorenzo Vetta. C’è tutta la vita vertiginosa del campione che ha incantato gli States tra gli anni Novanta e Duemila lasciando un segno indelebile. Non solo ha plasmato generazioni di ragazzini. È diventato un’icona a metà tra sport e cultura hip pop, anche per il suo stile nella moda: sua è anche la trovata della manica lunga aderente, una gomitiera sui generis che oggi spopola.

Tra i marcatori più forti di sempre, non ha mai vinto un titolo Nba, ma la cavalcata con cui ha trascinato i suoi 76ers alla finale del 2001 contro i Lakers di Bryant e O’Neal ha lasciato un alone leggendario. Al punto che quest’anno Philadelphia rilancerà la storica divisa nera in suo onore. Guizzi fulminanti, elevazione da urlo, imbattibile nell’1 contro 1, Iverson si è presentato in Nba mandando in confusione anche sua maestà Michael Jordan che del n.3 dei Sixers era rimasto folgorato: «Amo quel piccoletto». Eppure più saliva nella scala del successo, più le ferite del suo passato tornavano a farsi sentire. Soprattutto l’infanzia, segnata dalla mancanza di un padre. Di quello biologico porta anche il nome, ma era un bandito e andò via prima che sua madre appena 15enne, lo mettesse al mondo il 7 giugno del 1975 ad Hampton, in Virginia. Non è andata meglio col patrigno: il piccolo Allen l’ha visto poco perché fu sbattuto in carcere per questioni di spaccio in cui coinvolgeva anche lui. Costretto a crescere troppo in fretta, tra povertà e sparatorie, ha conosciuto da subito la legge spietata del ghetto, trascinato anche suo malgrado in eventi criminali che stavano per minarne la carriera. Una rissa in una sala da bowling quando ancora era 17enne gli è costata anche qualche mese dietro le sbarre (poi è stato scagionato per insufficienza di prove).

Ma ha rischiato di finirci anche più tardi quando ormai in preda all’ennesima sbornia le sue litigate con la moglie prendevano una piega decisamente violenta. Fino a spingere la donna, Tawanna Turner, con cui si conoscono dai tempi del liceo, a chiedere il divorzio (finalizzato nel 2013) e l’affidamento dei loro cinque figli. Un’inesorabile discesa all’inferno, tra infedeltà, alcol e gioco d’azzardo: quando ha smesso (nel 2011) aveva sperperato tutto il suo patrimonio di milioni di dollari. Al punto da rivelare: «Non ho più un soldo nemmeno per comprarmi un cheeseburger». La rabbia e le frustrazioni della sua adolescenza le ha scaricate anche in campo. Non a caso prima di sfogarsi nel basket era già una promessa del football americano. Si capisce perché sul parquet è stato un gladiatore sfrontato e irriverente: è diventata una foto cult lo step–over, la camminata sopra Tyronn Lue dei Lakers nella finale 2001. Un fenomeno lunatico, eccentrico, spesso ingestibile per i suoi allenatori. Emblematica la conferenza stampa del 2002 (che dà il titolo alla biografia) quando gli era stato rimproverato di aver saltato un allenamento: « We talkin’ about practice, man. Not a game (Stiamo parlando di un allenamento, amico. Non di una partita)». E Allen ha ripetuto “ practice” (allenamento) per 22 volte in un minuto, secondo Babb era ancora in preda ai fumi dell’alcol della sera prima.

In realtà il libro si ferma al 2015, in questi anni Iverson ha ritrovato una certa stabilità. Riuscendo a riconquistare, così pare, anche sua moglie. Nel 2016 quando ha fatto il suo ingresso nella Hall of Fame, tra gli immortali del basket, ha ringraziato commosso la sua Tawanna, «la vera numero 1» della sua vita. Ha cercato di incanalare il suo dolore nella pallacanestro, ma ha capito che aveva bisogno d’altro. Già annunciando il suo ritiro aveva detto: «Allontanarmi dal basket mi permetterà di passare più tempo con i miei figli e con mia moglie. Una ricompensa che supera qualunque eventuale vittoria. Ho pregato perché questo giorno arrivasse, e lo considero come il regalo più bello». In fondo Allen non ha mai smarrito una certa sensibilità. Fino ad ammettere: «Ho fatto molti sbagli, molte cose di cui non vado fiero… Spero che le cose buone superino le cose cattive. Sono dannatamente sicuro di non voler andare all’inferno». Mai dire mai con lui, ma sembra che il peggio sia ormai alle spalle. A noi però consegna un pallone che scotta ed è la domanda sul senso e il destino della nostra esistenza. Quella che né i soldi, né la fama, né un trionfo possono spegnere. The Answer ci fornisce l’assist per dire che in fondo l’unica “risposta” che conta è riconoscere quanto abbiamo bisogno di amare ed essere amati. Il desiderio di un abbraccio, familiare, vitale. Perché siamo fatti così. E chi ci ha creati sa quanto vorremmo che questo abbraccio non finisse mai.

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