Il palazzo del tribunale della famiglia di New York, a due passi dal ponte di Brooklyn, è tozzo e metallico, stride con le torri di pietra Art Deco che lo circondano. Un bimbo nero sui tre anni che la madre chiama Jalal si fa trascinare fra le colonne rettangolari, guardando stupito i ragazzini che fanno la fila all’entrata senza lamentarsi. Sono quelli abituati al metal detector, alle stanze enormi, alle toghe. C’è la fila anche all’ascensore e ci vuole un po’ ad arrivare al settimo piano, nell’anticamera dell’aula del giudice Rhoda Cohen. Qui le ragazze latine e afroamericane che vociavano si mettono a sussurrare. Un bambino serio di non più di cinque anni si affretta dietro un uomo dai pantaloni molli sul sedere che fa passi troppo lunghi, poi si mette a sedere in silenzio. Avvocati con enormi faldoni, per lo più giovani, per lo più donne (il tribunale della famiglia qui è la gavetta della professione), salutano i poliziotti di servizio, bisbigliano fra di loro o mandano e-mail. L’agente chiama il primo caso: Janik contro Black, e una piccola folla si stringe nell’aula con una ventina di posti a sedere. Janik è il cognome del padre di M. di cui si sa solo che è nero e che ha sei anni. Quando M. ne aveva cinque c’è stata una lite a casa sua, nel Bronx. Suo padre ha tirato fuori una pistola, ha sparato. Forse alla madre, forse a un "amico". Nessuno è stato colpito, c’è stato un processo, il padre è stato condannato con la condizionale e M. si è trovato in affido. Non era la prima volta che la polizia andava al loro indirizzo. La madre era tossicodipendente. Le è stato ordinato di disintossicarsi, e al padre di completare un ciclo di psicoterapia e un corso professionale. Ora la giudice Cohen deve decidere se M. può tornare a casa. «Avvocato, dov’è il suo cliente?», chiede a un uomo dai lineamenti giapponesi che si è alzato davanti a lei, sulla destra. «Credo che sia in North Carolina, vostro onore». «Come sarebbe, credo? Non doveva essere qui?». «Sissignora, dice di non poter venire». «Non può venire a decidere il destino di suo figlio?».L’avvocato tace e si risiede. La giudice guarda ora una giovane bianca, alta, con un paio di pantaloni grigi attillati. «Miss Cardy, e la sua cliente?». «Mi piacerebbe sapere dove si trova, vostro onore». È la seconda volta che né la madre né il padre di M. si presentano a un’udienza. Il bambino rimane alla famiglia affidataria, mentre la giudice cercherà di organizzare una sessione telefonica con il padre. Quanto alla madre, Cohen emette un mandato di cattura che scatterà se non contatterà il tribunale entro 24 ore. «Questi due devono prendersi qualche responsabilità». Nel caso successivo i genitori avevano almeno avvertito che non sarebbero venuti in tribunale: non vogliono aver nulla a che fare con il figlio "grande". Ha 14 anni. È scappato di casa, dicono loro. Lo hanno sbattuto fuori, dice lui. I genitori non hanno mai denunciato la sua scomparsa. Dopo due mesi sulla strada, è stato sorpreso a rubare in un supermercato. Il minorenne è andato a una famiglia, ma questa si lamenta: lui urla, disobbedisce, fuma marijuana, sparisce per giorni. Nessuno lo vuole, lui non vuole nessuno. Un rappresentante dei servizi sociali propone di provare una "casa di gruppo" per adolescenti ma la giudice non è convinta. «Questo ragazzo ha bisogno di una casa vera». L’udienza è aggiornata. «Bisogna lavorare con la famiglia d’origine – spiega più tardi Cohen – ma a volte sembra impossibile. Genitori drogati, mentalmente instabili, alcolizzati. Non c’è molto su cui lavorare». Negli ultimi anni il tribunale della famiglia di New York ha visto impennarsi i casi di minori trascurati, abbandonati o maltrattati. Sono passati da 210mila nel 2005 a 256mila nel 2009. Poi ci sono quelli che non arrivano in aula. Ogni anno negli Usa un milione e seicentomila minorenni scappano di casa. In tre quarti delle fughe i genitori non chiamano nemmeno la polizia. E se più della metà torna a casa nel giro di una settimana, gli altri svaniscono nel nulla. Nel 2008 i programmi pubblici per il recupero dei minori di strada ne hanno aiutati più di 760mila: erano 550mila nel 2002. «La recessione ha peggiorato la situazione, ma non si tratta solo di un tracollo economico», continua Cohen, che dal suo scranno segue la famiglia newyorkese da 35 anni. «Questo è il risultato dell’accumularsi di diverse generazioni di abbandono: la società ha abbandonato la famiglia e la famiglia abbandona i suoi figli».La droga, a partire dagli anni ’80, ha accelerato il processo, spiega ancora la giudice, ma i tagli ai servizi sociali e alle scuole pubbliche sono forse il fattore determinante. Ogni crisi economica scava un po’ di più il buco in cui sono scivolate queste famiglie per caso, madri e padri cresciuti in case sempre in bilico, senza soldi, senza lavoro, senza progetti, e quando si trovano con uno o più figli non sanno bene cosa farne. «I genitori che oggi maltrattano o abbandonano i loro figli non hanno mai avuto qualcuno che li aspettava a casa, che li voleva mandare a scuola, all’università. Non hanno imparato cos’è una famiglia». Prima di fine mattina Cohen sarà costretta a togliere una bambina ai genitori eroinomani che non vanno neanche alle visite che la piccola chiede in continuazione, anche se sa che l’agenzia (privata) che segue il suo caso non fa ispezioni regolari alla famiglia affidataria. «Ma è piccola, con un po’ di fortuna, e un po’ d’amore, dimenticherà». A fare ancora più tristezza alla giudice sono gli adolescenti, quelli «arrivati ai 12, 13 anni fra botte, caos e adulti senza controllo, e che pensano che possono fare di meglio da soli. Finiscono drogati, in galera, o si prostituiscono». Una statistica compilata dalle scuole a livello nazionale rivela che nel 2009 la categoria assurda dei «minori che vivono da soli» è cresciuta del 40 per cento. «Questi sono ragazzi difficili, è raro trovare un famiglia che li accetti – spiega Cohen –. Lo scorso anno ho dovuto mandare in un istituto tre ragazzini dai 10 ai 14 anni. La sorella minore era morta praticamente davanti a loro, dopo anni di maltrattamenti da parte dei genitori. Siamo intervenuti tardi. La piccola è stata trovata in un armadio e quei tre passeranno il resto della vita fra istituti, carceri, ospedali psichiatrici». Ma nel pomeriggio la giudice riesce a restituire Jay John, 4 anni, ai genitori. Christina e John sono tutt’altro che perfetti. Vivono di sussidi di disoccupazione e per disabili, vista la depressione della madre. Ma sono lì tutti e due, vestiti bene, con i loro certificati di disintossicazione in mano. Lei è in terapia in un consultorio pubblico e lui frequenta un corso per idraulico. C’è una zia disposta a dare una mano e i servizi sociali li terranno d’occhio. Jay John torna a casa».