domenica 17 luglio 2011
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Internet. L’email. Il radar. La biotecnologia. Il genoma umano. I robot. La telecamera a colori. La pastorizzazione del latte. Le scoperte e le invenzioni che in 150 anni di storia del Massachusetts Institute of Technology hanno cambiato il modo in cui viviamo parlano della sua instancabile propulsione verso il futuro. Ma forse non bastano a coglierne lo spirito, e a spiegare perché il Mit, lungi dal rassegnarsi ad essere la «sorella minore di Harvard», fin dalla sua nascita ha assunto il ruolo di guida del progresso scientifico e tecnologico mondiale. A narrare meglio quell’aspetto dell’avventura Mit sono i 150 oggetti messi in mostra per un anno nel museo dell’università di Boston (quella, appunto, a monte sul fiume Charles rispetto alla più britannica e aristocratica Harvard). Foto, documenti, macchinari e artefatti che, oltre a fornire una cronologia degli eventi che hanno fatto grande  L’istituto, vogliono spiegare che cosa rende il Mit unico.In mostra c’è un dato, ad esempio. Dalla fondazione del Mit da parte di William Barton Rogers due giorni prima lo scoppio della guerra civile americana, i suoi studenti hanno creato 25.800 società. Insieme hanno fatturato quasi 2mila miliardi di dollari: se fosse un Paese sarebbe l’undicesima economia mondiale. E’ la prova che il motto dell’università, mens et manus, non è lettera morta. Un’idea, un ramo di ricerca deve essere utile per trovare casa al Mit. E il più grande risultato con cui un ex studente può tornare a trovare i suoi professori non è un premio Nobel, bensì il brevetto della sua ultima invenzione o, ancora meglio, il certificato delle azioni dell’azienda che ha fondato. Hewlett Packard, Bose (quella delle casse stereo), Intel, McDonnell Douglas, sono tutte uscite dai laboratori del Mit e sono tutte presenti nella mostra. Ma lo è anche una bizzarra tradizione dell’istituto, rappresentata da un mucchio di rottami di legno: dal 1972 in avanti gli studenti ogni anno celebrano la laurea buttando un piano dal sesto piano del dormitorio Baker House. L’amministrazione non interviene, a patto che sappiano calcolare l’impatto dell’oggetto sul selciato. Calcolare con esattezza l’impatto del Mit sulla società sarebbe invece quasi impossibile. Si può partire da vicino, osservando il Big dig, frutto della mente di un docente del Mit, Frederick Salvucci, che ha radicalmente trasformato Boston. Decidendo di portare sottoterra con un complesso sistema di tunnel l’autostrada sopraelevata che deturpava la città negli anni ’70, Salvucci ha permesso di ricostruire interi quartieri e di alleggerire il problema del traffico. Oppure si può guardare lontano, alle missioni nello spazio dell’Apollo rese possibili dai sistemi di navigazione e controllo sviluppati nel Mit Instrumentation Laboratory.Si può cercare nel piccolo, come l’invenzione delle lamette usa e getta Gilette, o nel piccolissimo, come nella scoperta del legame fra geni e cancro. Poi ci si scontra con una teca che contiene solo un metro da tappezziere. Non è un’invenzione, bensì lo strumento usato da Nancy Hopkins, docente di biologia, per misurare i laboratori concessi ai colleghi uomini e per lanciare un programma anti-discriminazione che ha portato la neurobiologa Susan Hockfield ad essere oggi la prima donna presidente del Mit.Si comincia così ad avere un’idea di cosa rende il Mit unico. La conoscenza è importante, ripetono i docenti ai nuovi studenti, ma le sinergie fra discipline e persone che portano ad applicazioni concrete lo sono ancora di più. Quasi tutti i ragazzi che, anche d’estate, s’incontrano nei silenziosi corridoi dei centri di ricerca dell’università, rispondono in modo simile alla domanda, perché sei venuto qui?: «Per cercare di risolvere i problemi dell’umanità».Al Mit non c’è sicuramente traccia di quel «deficit di ambizione» che la presidente Hockfield denuncia come «uno dei mali che affliggono la società americana», dove solo il 15 per cento degli studenti si specializzano in tecnologia e scienza. E questa sete di sapere e di fare trasformano l’istituto in un motore che corre in avanti sempre a massima velocità. Un esempio? Molti oggetti, idee o ritrovati che sono diventati comuni solo in tempi relativamente recenti, al Mit sono in uso da decenni. Il computer digitale? Nato qui, ma negli anni Quaranta. La prima società di Internet? La Symbolics.com, concepita al Mit nel 1980. Il primo braccio bionico? Un prototipo del 1967. Il primo messaggio di posta elettronica ad essere mai passato da un computer a un altro partito dalla tastiera di Ray Tomlinson, un ex studente. Per molti di noi mandare un’email era una novità alla fine degli anni ’90. Lui lo fece nel 1972.«L’innovazione è un’arte», commenta Deborah Douglas, curatrice della mostra. Non è allora solo conoscere i numeri, elaborare gli algoritmi, distinguere le cellule in un microscopio. È sapersi guardare attorno, riconoscere un problema e immaginare come si possono unire diverse discipline per risolverlo». Da 150 anni il Mit insegna esattamente quello.
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