venerdì 26 marzo 2021
A 100 anni dalla prima spedizione sul colosso himalayano, parla il primo uomo capace di arrivare in vetta, 8.848 metri, senza ossigeno e in solitaria. «Volevo indicare una nuova via»
Un intenso primo piano di Reinhold Messner

Un intenso primo piano di Reinhold Messner - Joern Haufe/dapd

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«Non è una punta, ma una massa prodigiosa. Il lungo braccio della cresta nord-ovest, con i suoi speroni secondari, sembra la cattedrale di Winchester dopo una nevicata». Apparve così, un secolo fa, l’Everest agli occhi di un estasiato e, immaginiamo, anche un po’ intimorito, George Mallory, alpinista di punta della prima spedizione della storia alla montagna più alta del pianeta. Nella primavera del 1921, gli inglesi lasciarono le piantagioni di tè del Darjeeling, in India, per tentare di arrivare agli 8.848 metri del tetto del mondo. Non ci riuscirono, lo stesso Mallory scomparve sulla montagna in un’altra spedizione del 1924, ma tracciarono una strada seguita da generazioni di alpinisti. Tra i pionieri dell’Everest, un posto di rilievo spetta all’italiano Reinhold Messner, che, per primo al mondo, l’8 maggio 1978 arrivò in vetta senza utilizzare ossigeno supplementare, in cordata con l’austriaco Peter Habeler, mentre tra il 18 e il 20 agosto 1980, compì la prima ascensione solitaria, per il versante nord, sempre senza ossigeno.

Messner, che posto occupa la prima spedizione di un secolo fa nella storia dell’alpinismo?

Allora, gli inglesi erano gli unici ad avere la possibilità, anche burocratica, di avvicinarsi all’Everest. Italiani, francesi e tedeschi non avevano colonie nella zona e non avevano accesso alla montagna. Gli inglesi, invece, erano i “controllori” dell’India e di tutta quella grande regione. E hanno quasi costretto il Dalai Lama a concedere il permesso di scalare l’Everest dal versante tibetano. La spedizione del 1921 era più che altro una ricognizione, ma fu molto importante per la storia dell’alpinismo. Ed è molto bello che, esattamente cento anni dopo, gli sherpa diventino le figure più importanti dell’alpinismo himalayano. Nella spedizione del 1921 erano addetti ai lavori pesanti, al trasporto delle grandi casse di materiale. Oggi, con la prima salita invernale del K2 dello scorso 16 gennaio, hanno dimostrato di essere più forti di tutte le spedizioni occidentali che, negli ultimi vent’anni, hanno sempre fallito. Loro sono riusciti in un’impresa anche di un'eleganza incredibile. Mi congratulo con gli sherpa e sono molto felice che la loro performance sia arrivata proprio quest’anno, un secolo dopo la prima spedizione inglese.

Quando è stata la prima volta che, anche lei, ha detto: «Voglio salire lassù »?

Nel 1972, dopo la spedizione al Manaslu, con altri due compagni abbiamo pensato che fosse giunto il momento di puntare all’Everest. E abbiamo dovuto aspettare per sei anni per avere il permesso, perché allora c’era soltanto una spedizione a stagione sull’Everest. Nel 1973 ho cercato il sostegno di Guido Monzino e sono andato a trovarlo in Africa, dove aveva enormi possedimenti. È stato molto gentile, ma quando gli ho chiesto il permesso di aggregarmi alla sua spedizione con il mio piccolo gruppo per tentare la parete sud-ovest, ha risposto di no. Forse pensava che, in caso di successo, avrei potuto offuscare la sua grande spedizione. Quando, nel 1975, gli inglesi hanno poi salito la parete sud-ovest, ho deciso di tentare la salita senza la maschera d’ossigeno.

Quando, un secolo fa, chiesero a Mallory perché volesse andare sull’Everest, ripose: «Perché è là». E lei, perché voleva andare sul tetto del mondo?

La risposta di Mallory era perfetta per quei tempi, perché l’Everest non era ancora stato salito e, appunto, «Era là». Per la mia generazione non contava più salirlo per la via normale, perché era già stato fatto e non era più un’incognita. Per noi l’Everest rappresentava la possibilità di esprimerci. Non contava più solo la cima, non contava più solo la via, ma contava soprattutto lo stile con cui salivi. E andare senza le bombole d’ossigeno voleva dire essere leggeri, autosufficienti ed essere anche molto più esposti alle difficoltà, alla fatica e anche al rischio.

Che emozioni ha provato quando ha messo il piede sulla cima dell’Everest?

La vetta dell’Everest è il “tetto del mondo” ma, dal punto di vista alpinistico, conta meno della salita del K2 o del Nanga Parbat. È chiaro: sei sulla cima più alta della Terra, ma più in alto sei più cresce anche un’emozione molto forte legata alla paura di non farcela a scendere. In vetta sei soltanto a metà strada: devi salire ma poi devi anche scendere. E la discesa può essere pericolosa, può arrivare brutto tempo, venire la nebbia. In cima non ci sono le emozioni più forti. La vera, grande emozione in una spedizione del genere, specialmente in solitaria, è quando ritorni al campo base, quando rientri nella società. Prima sei fuori dal mondo, come se fossi sulla Luna e per questo c’è sempre una certa tensione. Ritornare sani e salvi significa rinascere e questo è un momento molto forte: hai davanti a te tutto il mondo perché hai salito l’Everest e sai che, con questo stile, puoi affrontare tutte le cime della Terra. Prima della mia spedizione si diceva che sull’Everest senza ossigeno non si poteva andare, così come senza portatori e tanto materiale. Ma io non avrei mai avuto la possibilità di finanziare una spedizione come, per esempio, quella al K2 del 1954. Avendo poche possibilità finanziarie, dovevo inventare uno stile leggero per poter fare le mie attività. E così è nato lo stile alpino.

Nella sua carriera di alpinista, che posto occupa l’Everest?

La salita all’Everest del 1978 non sta tra le prime dieci salite più importanti che ho fatto. Certo, quella salita ha impressionato il pubblico perché si tratta pur sempre della cima più alta del mondo. Per questa ragione l’Everest è un record in sé. Ma io sull’Everest non ho fatto nessun record, ho dimostrato che era possibile salirlo senza maschera d’ossigeno, così come gli altri Ottomila. Ma non per questo lo considero la mia massima esperienza. In questa categoria metto, invece, quelle salite che mi hanno portato molto vicino alla morte, come sul Nanga Parbat nel 1970, che è di gran lunga la mia esperienza più forte, dove ho perso mio fratello Gunther e mi sono state amputate sette dita dei piedi per i congelamenti.

Cento anni dopo la prima spedizione, oggi vediamo le code di alpinisti sulla cresta finale in attesa di salire sulla cima: in un secolo l’uomo ha addomesticato anche l’Everest?

Sì, anche se già da trent’anni c’è questo trekking su una sorta di via ferrata, predisposta da centinaia di sherpa, che va dal campo base alla cima, con migliaia di metri di corde fisse, campi alti già montati, con medici e cuochi. Poi i turisti che hanno pagato salgono su questa pista. Ma questo non c’entra nulla con l’alpinismo tradizionale. È legittimo, ci mancherebbe, ma è un’altra cosa. L’alpinista va dove gli altri non ci sono per cercare di realizzare i propri progetti.

Sull’Everest la natura può ancora stupirci, c’è ancora spazio per l’avventura o abbiamo scoperto tutto?

No, sull’Everest c’è spazio solo per le spedizioni commerciali. Due anni fa, un giovane tedesco aveva annunciato a tutti i mass media che avrebbe fatto l’ultima impresa possibile, cioè la salita in invernale solitaria della cresta ovest, una via difficile. Ma non è andato lontano e lo sapeva benissimo: ha fatto soltanto l’annuncio. E questo sarà il futuro: l’alpinismo dell’annuncio. Ma l’avventura non è finita. Ci sono più di 10mila cime non scalate, con vie ancora da fare su vette inesplorate di 6mila e 7mila metri, molto più difficili degli Ottomila. Vie di altissima difficoltà su montagne che non ci sono nemmeno sulla carta geografica.

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