giovedì 30 marzo 2017
Dialogo con il nuovo ct della Nazionale femminile di pallavolo: «Sono partito dalla mia Marotta. Se sono arrivato fin qui lo devo agli incontri della vita, agli amici di sempre e al Cielo»
Mazzanti, la parabola del coach illuminato
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Questa è la storia di Davide Mazzanti, freschissimo allenatore della Nazionale femminile di pallavolo, ancora per poco alla guida delle Pantere dell’Imoco Conegliano che si appresta a giocare i playoff dopo aver dominato la regular season con 20 vittorie su 22 partite. Ma è anche la storia del professor Severini e di Imma, di Roberto e di Lorenzo, di don Steven e di Serena. Perché la storia di Mazzanti, quarantenne di Fano con casa a Cervia, marito di Serena Ortolani e papà di Gaia, è una storia di incontri, ciascuno dei quali è stato uno snodo. E, forse, sarebbe bastato che uno di questi incontri saltasse perché la vita di Davide prendesse un’altra svolta, un’altra strada, diretta chissà dove.


È vero che lei era un ragazzo di oratorio? Un giovane dell’Azione cattolica?

«Verissimo. Il mio gruppo giovani, a Marotta, era bellissimo. Ricordo come fosse ieri la Giornata mondiale della gioventù a Parigi e i campi scuola. Tra i tanti giovani come me vorrei ricordare Tricia, che scelse la clausura ma adesso è sposata e con una bimba; e Steven Carboni, che diventa prete, mi ha sposato e oggi è responsabile della pastorale giovanile della diocesi di Fano. Sa che ogni 26 dicembre viene a vedere una mia partita con un gruppo di giovani?»

Che tipo di ragazzo era Davide Mazzanti a Marotta?

«Non sapevo che cosa volessi fare davvero. Mi sentivo addosso il peso di alcuni giudizi negativi, ero convinto di non essere stato baciato dal Signore per il talento».

Scarsa autostima? Succede a molti. Ma che succedesse pure al futuro allenatore della Nazionale...»

«Dalle medie non ero uscito sugli allori. Pensavo che il massimo per me fossero le scuole professionali. Ma qui, un giorno, dopo aver corretto un mio tema la prof di italiano commentò: Davide, il giudizio delle medie non ti appartiene. Fu un colpo. Ma soprattutto ci fu il professor Paolo Severini. Insegnava elettronica bene, anzi benissimo, faceva innamorare della sua materia. Decisi che volevo essere come lui. Dissi a me stesso: insegnerò e farò innamorare della mia materia. Così, diplomato con 56/60, mi iscrissi a Ingegneria».

Bravissimo!

«Mica tanto. Notai subito il gap tra me e chi arrivava dal liceo. Facevo una maledetta fatica».

E la pallavolo?

«Giocavo a Marotta. Bravino ma, appunto, senza brillare. Però avevo un allenatore eccellente, Roberto Casagrande, che mi allenò anche e soprattutto ad ascoltare e a mettermi in gioco. Dalla Terza Divisione salimmo fino alla serie C, ma io ero convinto che avrei insegnato elettronica. Finché incontrai Angelo Lorenzetti, anche lui di Fano, che portò la Nazionale juniores ad allenarsi a Marotta. Andai ad assistere alle sue sedute, per vedere com’erano i pallavolisti della mia età, ma di ben altro livello. Era entusiasmante vedere come Lorenzetti sapesse lanciare sfide ai ragazzi. Mi costrinse a pensare: no, non ho il talento per Ingegneria, ma per la pallavolo...».

Sempre in serie C?

«Mi iscrivo all’Isef e mi chiamano a Mondolfo ad allenare le ragazze under 14».

Quindi allena le donne per caso, non per scelta?

«Ho cominciato con quelle ragazzine e non ho più smesso. Intanto studiavo, tanto, come un forsennato. Divoravo videocassette di corsi per allenatori. Volevo sapere tutto».

Come prendono i suoi genitori il passaggio da Ingegneria all’Isef?

«Non capiscono. Ma non mi fermano. Intanto prendo tutte le abilitazioni possibili. Finché finisco a mangiare un panino al McDonald’s di Ancona».

Un fatal panino?

«Ero andato a una lezione di Lorenzo Micelli, allenatore del Corridonia in A2. Alla pausa pranzo ci ritroviamo, per caso, allo stesso tavolo con lo stesso panino».

Coincidenze.

«Cominciamo a parlare. Non so cosa accade, ma alla fine mi dice: ho bisogno di un vice, ti andrebbe? Fu un fatto di pelle e l’inizio di una storia lunghissima. L’ho seguito per sette anni, dalla A2 alla B1 ad Ancona e infine quella volta a Santeramo in A2...»

In Puglia?

«Profondissima Puglia. Era come stare all’Olimpiade: se vinci sei un eroe omerico, se perdi invece... Inizia il campionato e becchiamo sette sconfitte di fila. L’ottava partita è in casa contro la penultima e ci troviamo sotto per 0-2.

Valigie pronte...

«E incolumità a rischio. Non trovammo di meglio che gettare in campo una ragazzina di 14 anni, Imma Sirressi ».

Una formidabile schiacciatrice?

«Macché, un libero, un difensore. Cominciò a tirar su palloni come un aspirapolvere, vincemmo 3-2 e la stagione di colpo cambiò, diventando trionfale. Disfammo le valigie».

Senza Imma dove sarebbe oggi Mazzanti?

«So dove finimmo Lorenzo e io: lui vice in Nazionale e io suo assistente. Per dieci anni. Io poi vengo mandato in B1 a Ravenna a sostituire Sergio Guerra, mitico coach di 13 scudetti, morto due anni fa. Per due anni mi hanno assegnato il premio intitolato a lui, un grandissimo onore».

Ravenna, piazza prestigiosa.

«La prima notte la passo piangendo come un vitello. Ero diventato il clone di Lorenzo e mi trovavo solo, completamente solo... nel corpo di un altro. Al primo allenamento avevo provato a fare il Lorenzo. Invece avrei dovuto fare le cose a modo mio, clone di nessuno, senza voler essere qualcun altro. Io, l’originale. Comincia lì, a Ravenna, un percorso di ricerca che credo non finirà mai».

Ricerca e carriera: tre scudetti a Bergamo, Casalmaggiore e Conegliano.

«Ma anche un esonero a Piacenza».

Che cosa successe?

«Colpa della vittoria a Bergamo. Vinco e mi domando: e adesso? Entro in un tunnel, mi perdo. Ho il terrore di cambiare. Accade che chi vince “diventi” ciò che ha ottenuto, il vittorioso, l’eroe. E si atteggi come tale. Non mi diverto più. Sono troppo preoccupato di come gli altri mi vedano. Ma non sono un eroe, io. Amo tenere un profilo basso, non mi piace apparire».

E il club Italia?

«Le Olimpiadi. Sono a Pechino e a Londra come assistente».

Pechino, quella sciagurata sconfitta con le boscaiole americane...

«A Pechino capii una cosa: gli allenatori dovrebbero fare i campi scuola. Quando ti ritrovi a vivere fianco a fianco, in spazi ristretti come quelli del Villaggio olimpico, condividendo tutto, si scatenano dinamiche che solo un educatore navigato può comprendere e governare».

A Pechino non accadde?

«Non posso e non voglio parlare delle “cose di spogliatoio”. Dico solo che ci sono tempi e ruoli da rispettare. Se non accade, sono guai grossi».

Ma è vero che le giocatrici sono capaci di distruggere il loro allenatore, se vogliono? «Un allenatore viene valutato innanzitutto sulla coerenza. È bene che parli poco ma pesando bene le parole. Se dici mezza parola fuori posto, i maschi possono dimenticarla, ma le femmine se la ricorderanno per sempre».

E te la faranno pagare. A proposito, lei ha sposato una giocatrice, Serena Ortolani.

«Dicono che ad attrarsi siano gli opposti, ma noi siamo molto simili. Una romagnola e un marchigiano. Facciamo a gara a chi è più scemo!»
(Mazzanti si sveglia alle 5.30 e studia per tre ore. Ma per prima cosa legge il Vangelo del giorno. Lo scorso 14 marzo ha parlato con Francesca Villanova, consacrata della “Nostra Famiglia” di Conegliano, all’incontro organizzato dall’unità pastorale di Codognè su “Allenare la gioia”. Quando con il conduttore, Diego Grando, è uscita la parola “servizio”, Mazzanti ha aggiunto: «Sì, come nel Vangelo di oggi»).

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