venerdì 5 gennaio 2018
Protagonista alla Scala nell'"Andrea Chénier”, parla il baritono che riceverà a Parma il più ambito premio verdiano: «Io canto all’antica? Ma no, rispetto l’autore»
Luca Salsi: «Un onore dare la mia voce a Verdi»
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«Nato a Costantinopoli? Straniero! È poeta? Sovvertitor di cuori e di costumi! ». Le accuse per condannare Andrea Chénier – che ascoltate oggi suonano drammaticamente attuali – in scena le mette nero su bianco con la mano sinistra. Lo farà anche stasera per l’ultima replica dell’Andrea Chénier che il 7 dicembre ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala. Con la stessa mano che nella vita usa per scrivere e giocare a tennis. «Sono mancino. E forse è proprio per questo che faccio il cantante, perché i miei genitori quando avevo sei anni mi hanno fatto studiare pianoforte per sviluppare l’uso della mano destra ». Sorride Luca Salsi che è Carlo Gérard, il personaggio forse più complesso dell’opera di Umberto Giordano. Di certo il più tormentato, reso alla perfezione dal baritono nato a San Secondo Parmense nel 1975. Che sin da subito ha messo d’accordo pubblico e critica. «Di meglio non potevo sperare – dice Salsi –. Il 7 dicembre avevamo tutti gli occhi puntati addosso, ma abbiamo vinto la sfida. E ad ogni replica è andata sempre meglio».

Qual è stato il complimento più bello ricevuto in questo mese di repliche?
«Mi hanno detto che canto “all’antica“ e ricordo “le voci del passato”. Un orgoglio per me, appassionato del canto all’italiana. Noi interpreti abbiamo il dovere di continuare la tradizione dell’Italia, il paese che ha inventato l’opera, sia dal punto di vista vocale che da quello dell’approccio a uno spartito. Perché anche nella musica oggi il rischio è quello della globalizzazione».

Verdi e Puccini, dunque, come il cibo o l’abbigliamento dei grandi marchi, fatti nello stesso modo in qualsiasi città del mondo?
«Nelle opere c’è la nostra storia: i melodrammi di Verdi raccontano i sentimenti che vivevano gli italiani del Risorgimento, onore, rispetto, famiglia, valori validissimi ancora oggi. Per questo occorrerebbe farle studiare a scuola come uno degli esempi più alti di educazione civica. Se dimentichiamo il passato rischiamo di perdere la nostra identità perché l’arte ci dice chi siamo. Abbiamo un patrimonio unico al mondo da tutelare e far conoscere».

Il 4 marzo andremo alle urne. Il suo è un appello alla politica?
«A chiunque andrà al governo dico che la vera grande rivoluzione per l’Italia deve partire dalla cultura, con la quale si può mangiare. La cultura non ha colori e non deve averli. Non sono mai stato d’accordo con chi sostiene che la cultura è di sinistra: è e deve essere di tutti, accessibile a chiunque ».

Dopo la Scala tra poco sarà per tre mesi a New York, dove ancora ricordano la sua impresa di due opere nello stesso giorno.
«Ne ha parlato tutto il mondo. È stato anche un bel rischio perché ci vuole una certa dose di incoscienza, oltre che una tecnica ben salda, per cantare Ernani e Lucia di Lammermoor in poche ore. Lucia che è anche l’unica opera non verdiana che canto nel 2018: sempre al Met dove affronto anche Trovatore e Luisa Miller. Torno in Italia a giugno per Don Carlo con Mariotti a Bologna. Poi tre Macbeth: a Parma per il Festival Verdi, a Venezia con Chung e a Firenze con Muti: il più grande direttore verdiano che mi dirige nella mia opera preferita, cosa chiedere di più? Ho incontrato il maestro nel 2013 e la mia carriera da allora è cambiata, ma è cambiato soprattutto l’approccio alla partitura, specie quella verdiana: Muti mi ha dato un metodo di lavoro sulla partitura che applico ad ogni ruolo che interpreto».

A Muti la accomuna la sfida di proporre le opere di Verdi così come sono scritte.
«Intendiamoci, non sono contro la tradizione, perché se ci sono belle note fuori ordinanza mi esalto anch’io. È un discorso di fedeltà musicale: mi piace trasmettere emozioni senza cambiare nulla di quello che è scritto perché in Verdi c’è già tutto. Fedeltà musicale e libertà nell’interpretazione perché oggi una bella voce non basta più, occorre portare in scena una verità che viene dalla vita. Tanto che i personaggi che ho interpretato hanno lasciato una traccia nella mia personalità. Nel 2019 arriveranno Simon Boccanegra e Iago di Otello ».

Ancora il musicista di Busseto. A proposito, Parma il 13 gennaio le consegnerà il Verdi d’oro.
«Riconoscimento che da cantante verdiano e cittadino di Parma mi rende orgoglioso. Ho scelto di vivere dove sono nato e cresciuto, anche se Parma ti vuole bene quando fai bene, ma un po’ dimentica quando le cose non girano».

Vent’anni di carriera. Si sente arrivato?
«Sento sempre di dover dimostrare qualcosa. Sorrido quando mi dicono che sono il più grande baritono del mondo. Penso a quando a 10 anni ho mollato il piano per il pallone, a quando con gli amici cantavo Dalla e Battisti accompagnandomi alla tastiera. Certo, sono consapevole di cantare nei teatri più importanti. Per questo non smetto di studiare con Carlo Meliciani: quello che sono lo devo a lui, maestro di canto e di vita. I piedi, poi, restano ben piantati per terra grazie ai miei genitori che mi hanno sempre sostenuto e ai miei figli Ettore e Carlo, la mia prima ragione di vita».

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