sabato 27 maggio 2017
Il ministro della Salute discende da esuli polesani: «È tempo di dialogo, di verità e di giustizia»
Lorenzin, orgoglio di istriana
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«La Jugoslavia non esiste più, oggi esistono Slovenia e Croazia, due Paesi che fanno parte dell'Europa: è ora che si aprano gli archivi e si sappia dove giacciono i nostri cari, morti nelle Foibe e negli eccidi di Tito. È ora di poter dare loro una degna sepoltura, le regole del vivere civile oggi lo consentono». Per la prima volta il ministro Beatrice Lorenzin ha parlato ufficialmente nel suo ruolo più intimo di «istriana di seconda generazione», figlia di un padre esule da Pola, partito come altri 300 mila giuliano dalmati per sfuggire alla crudezza della dittatura comunista di Tito. Lo ha fatto a "èStoria", il Festival internazionale che da 13 edizioni si tiene a Gorizia, in un incontro intitolato "Noi, italiani due volte": la prima per nascita, la seconda per scelta, «perché i nostri genitori e nonni hanno perso tutto, la casa, i terreni, il tessuto sociale, pur di restare italiani».

Qual è il suo legame con Pola? Quali ricordi le ha trasmesso suo padre?
«Esistono tre Pola in me: quella di mia nonna, di mio padre e la mia. Il racconto di mio padre è sempre stato scarno, un po' per un pudore tipico di molti istriani, e un po' per non far pesare su noi figli il suo senso di privazione, che si è portato dentro tutta la vita. Mia nonna invece trasmetteva il dolore di chi non si è mai fatto una ragione: la famiglia era stata sradicata per sempre e sparsa fino negli Stati Uniti e in Australia. E c'è la Pola che ha inciso molto su di me per tanti aspetti. Papà partì con sua mamma vedova nel 1950, tre anni dopo gli altri polesani, perché nonna non riusciva a staccarsi dalla sua terra. Ma dopo i primi sei mesi era già chiaro che tirava una brutta aria per gli italiani: il nome di mia nonna era finito in una lista di proscrizione. Un parente riuscì a salvarli, ma bisognava fuggire. Lo fecero in treno, poi in Italia provarono il campo profughi. E qui comincia il silenzio di mio padre, che si interrompe solo con la storia dell'arrivo a Firenze: lì mia nonna, che a Pola aveva condotto una vita agiata, con umiltà andò a servizio come domestica per dare a mio padre la dignità degli studi. Il mio essere ministro è il risultato del coraggio di mia nonna, che mi ha donato un futuro e un forte senso dello Stato. Oltre al significato di libertà e verità, due valori che apprezzi solo se hai rischiato di perderli».

Quando ha percepito consapevolmente la sua istrianità?
«Le radici crescono sottopelle senza che ce ne accorgiamo, ma poi arriva il momento in cui ci urlano dentro e noi diventiamo fieri della nostra identità. Ammetto che da piccola, quando mi chiedevano del mio strano cognome, prima cercavo di spiegare dove fosse l'Istria e che storia avessi alle spalle... Poi, stanca di dovermi difendere - erano anni in cui gli insegnanti non sapevano nulla di Foibe ed esodo -, iniziai a nascondermi dietro una bugia, dicendomi veneta. È una cosa che accomuna molti di noi. Da grande mi sono sentita in colpa di aver rinnegato ciò che ero e i miei viaggi in Istria sono diventati una ricerca della Memoria. Ho visitato con mio padre la nostra casa a Medolino, le tombe dei nostri cari: se non sai chi sei, non sai dove vai».

Quali le emozioni in quella casa perduta?
«Ho colto tutta la sofferenza dell'esilio, cosa significhi un giorno uscire e sapere che è per sempre, che domani nelle tue stanze, tra le tue cose più care entreranno persone sconosciute e ne prenderanno possesso. Mia nonna chiuse quella porta e le chiavi le consegnò ad altri italiani "rimasti". Era una donna che parlava cinque lingue e mai il dialetto... ebbene, negli ultimi anni della sua vita per nostalgia parlò esclusivamente in dialetto».

I giuliano dalmati sono stati colpiti due volte: fuggiti nelle altre regioni d'Italia per salvarsi da quella che Napolitano nel 2007 chiamò "pulizia etnica", qui non furono creduti e furono "dimenticati".
«E ingiustamente tacciati di fascismo. Eppure con i loro beni pagarono il debito di guerra dell'intera Italia sconfitta, senza ricevere un gesto di gratitudine. Fortunatamente in questi anni stiamo assistendo a un'opera di verità: la storia non ti dà ragione nel breve termine, ma nel medio-lungo termine arriva sempre. Oggi la riconciliazione tra esuli e rimasti è una realtà, e in Istria e Dalmazia possiamo andare "a casa" senza le paure di quegli anni, ricostruire lì le nostre comunità. L'Italia in passato è stata cieca, ma oggi dipende anche da me far sì che i miei bambini conoscano a loro volta la storia di famiglia. A Rovigno ho incontrato un mio cugino Lorencin, anche lui ministro croato del Turismo, anche lui di Medolino, della mia stessa età: insieme eravamo la testimonianza incredibile di un'Europa che ha abbattuto odi e ha costruito altro. Dopo due guerre spaventose, che hanno fatto milioni di morti e hanno dato libero sfogo all'orrore, l'Europa è stata la risposta: non è nata per il grano o il carbone, ma perché eravamo tutti rinsaviti e dicevamo basta! Mia nonna negli anni '70 partiva da Firenze e portava a Pola cibo e medicine per i nostri parenti rimasti nella povertà¿ Ma un popolo dilaniato si può ricostruire e il coraggio degli istriani è tuttora un esempio grandissimo. Ricordare non vuol dire piangerci addosso, ma riprenderci la nostra identità. Un incontro come questo di oggi solo 20 anni fa sarebbe stato impensabile e censurato».

Lei un mese fa è andata sul cippo di Vergarolla, a Pola, dove in tempo di pace nel 1946 furono uccisi oltre 100 italiani nel primo attentato terroristico dell'Italia repubblicana. Lei è il primo ministro italiano in 70 anni...
«Mio padre non è riuscito a venire con me, il ricordo era troppo forte. Nessuno in Italia conosce questa strage e i libri di testo ancora non ne parlano. Al dottor Micheletti, che perse i suoi due bambini, ma operò tutta la notte i feriti, conferirò la medaglia d'oro alla Sanità. Importante è che con me c'era il mio omologo ministro croato. Nella stessa occasione ho visitato i ragazzi delle scuole italiane in Croazia: sono molto consapevoli della loro italianità, ma si sentono anche cittadini d'Europa. Questo va coltivato anche qua in Italia, incentivando film, libri, tutto ciò che possa far conoscere la verità sull'esodo, ma anche preservando oltre confine la nostra lingua e cultura».

A quando la verità sulle migliaia di salme ancora cercate dai loro figli? E sui beni espropriati a istriani, fiumani e dalmati?
«È tempo che si aprano gli archivi e si faccia giustizia, almeno per chi resta... Molto tempo è passato, sono temi difficili, ma ormai siamo consapevoli che c'è un diritto negato e le nuove norme dell'Europa costringono a nuove risoluzioni».

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