Ritorno da scuola, Livigno 1961 (© Pepi Merisio)
Difficile dire (e dopotutto forse nemmeno importante) se Pepi Merisio conoscesse l’opera di Tullio Garbari quando scattò la sua indimenticabile maternità in Val di Mello, nel 1962. Colpisce però l’intensa sintonia tra questa immagine e la Madonna della Pace del 1927, al Museo Diocesano di Trento. Due madonne contadine, dai tratti ispessiti dalla vita, sedute ai piedi di un albero. I capelli neri tirati all’indietro, con la scriminatura al centro (appena più scompigliati quelli della Maria lombarda), lo sguardo tenero abbassato verso il bambino tenuto sulle proprie ginocchia da un abbraccio ben saldo. Un occhio allenato riconosce subito l’eco di tante pale d’altare, da Raffaello in poi. Ma non c’è solo la lezione del Rinascimento (che in Merisio non è esercizio intellettuale ma il modo più alto per dichiarare la nobiltà di una realtà fatta di fatica e di miseria). Ai due artisti non basta bagnare il soggetto in una forma colta. C’è qui tutta la potenza espressiva di un’arte, maritainianamente, capace di dare vita a un’arte «allieva di Dio, animata dalla semplicità e dall’innocenza». Garbari per raggiungerla è costretto a ripulire la pittura dai troppi estetismi, figurativi e filosofici, per incardinarla, una volta riportata alla sua natura grezza, al mistero dell’Incarnazione. Merisio non ne ha bisogno, gli basta raccogliere il reale. Senza forzarlo né addolcirlo, raccontandone la crudezza e l’innocenza, la luce e la polvere. La maternità valtellinese è uno degli apici di Terra amata, grande antologia che Contrasto, in collaborazione con Crocevia – Fondazione Alfredo e Teresita Paglione, dedica al fotografo nato a Caravaggio nel 1931 (pagine 272, euro 29,00). Un volume che attraverso 210 scatti (tra cui alcuni inediti) ripercorre la carriera di Merisio, dal 1952 quando ancora fotografo amatoriale ritrae della Stazione Centrale di Milano trafitta dalla luce, fino al 2015. Ma non è cronologico il criterio della raccolta – anche perché Merisio dimostra una solida continuità di sguardo – quanto per temi: dal senso profondo del paesaggio italiano alle età dell’uomo, dal lavoro alla dimensione del sacro. Ritroviamo immagini celebri, come quelle dedicate al funerale dello zio Angelo, che nel 1963 gli aprì le porte delle principali riviste internazionali, le cascine lombarde, i pellegrinaggi, i memorabili reportage accanto a Paolo VI, e altre meno note che ne completano però l’universo visivo.
Giovanni Gazzaneo, curatore del volume, definisce Merisio «l’ultimo degli umanisti » perché «il suo è un canto all’umanità fatto di immagini che colgono l’amore, il lavoro, l’amicizia, il gioco, l’attesa, la gioia, la preghiera. Un canto di terra e cielo, vita e morte. Ecco il segreto di Merisio: la capacità di raccogliere gli estremi (e quindi il tutto) in uno sguardo». Spesso, e giustamente, il fo- tografo è stato definito il cantore della civiltà contadina: le sue fotografie costituiscono un vasto poema sulle opere e i giorni che per secoli hanno ritmato la presenza dell’uomo su questa terra. Eppure appare riduttivo fare di lui solo il cantore del crepuscolo del mondo rurale. Sarebbe allora confondere l’epica con l’elegia, la coscienza del territorio con il localismo, la plasticità del vernacolo con l’inflessione dialettale. Le foto di Merisio si collocano piuttosto sul crinale tagliente di una irreversibile svolta antropologica che investe l’intero paese, affrontata con lucidità, senza nostalgia. È per questo che Merisio può fotografare il maglio e l’altoforno, il carretto sullo sfondo del petrolchimico di Gela, il gioco dei bambini e il lavoro minorile, la tonnara e la Fiat, i voli delle ballerine alla Scala e il carnevale povero a Venezia, l’osteria padana e il caffè borghese, la Torre del Mangia e il Pirellone. La lente dell’etica gli consente di mostrare la simultaneità di due o più “Italie”, un paese che in piena accelerazione lacera se stesso dalla propria storia, per ripresentarsi non migliore né peggiore (e forse neppure nuovo) ma semplicemente e drammaticamente diverso. Ma, di nuovo, non è tutto, e neppure abbastanza.
Nei suoi scatti Merisio chiama a sé le risorse di una vasta cultura visiva dissimulata e persino sepolta per dare vigore strutturale all’immagine. Ma in questa, ancora poco esplorata, natura colta dell’immagine, Merisio non è mai elegante o compiaciuto, mai neppure remotamente borghese: e in questo si configura come un outsider della fotografia italiana. Se egli stesso si è sempre riconosciuto affine agli autori della Farm Security Administration, il suo vero termine di confronto contemporaneo appare Josef Koudelka, con il quale condivide la qualità tattile del bianco e nero: una grana spessa che fa e- rompere, attraverso la superficie, la densità profonda della materia, la resistenza che certifica la realtà. Di questa grana sono i suoi volti, certo, ma anche la terra grassa, il granito della Val Poschiavina, la bruma che si gonfia sopra le Crete senesi, la polvere alzata raccogliendo le patate a Bormio.
Questa fotografia dove tutto è corpo, anche una bottiglia di vino, la lama di un badile, uno stipite di pietra, la nebbia e la neve, trova il suo naturale compimento quando pone nell’obiettivo l’esperienza del sacro, mostrato spesso e soprattutto (e può apparire naturale per chi è nato accanto a un grande santuario) nel suo essere movimento a piedi: pellegrinaggio, processione, corteo funebre – e in questo intrinsecamente premoderno perché ancorato a una fisicità del viaggio oggi invece sempre più depurata dalla fatica. In verità è da qui che dobbiamo osservare, come a ritroso, tutto il suo corpus. Da qui muove la comprensività dello sguardo di Merisio, sia che documenti l’aratura ad Ambivere o le greggi a Capopassero, sia che contempli un volto inciso dalla fatica o un girotondo di bambini, sia che si posi sugli argini del Po o sui prati sassosi di Altamura. Uno sguardo che è prima di tutto d’amore. Come per la pittura di Garbari, non c’è fotografia di Merisio che non sia sacra. Perché il tempo in cui immerge il suo obiettivo è il tempo della Grazia.