lunedì 13 gennaio 2025
L’afflato spirituale del prete nella raccolta curata da Bignami e Zanaboni per Edb. «Mi chiedo: perché non sono dentro anch’io? E allora interrogo il Vangelo»
Don Primo Mazzolari

Don Primo Mazzolari - Siciliani

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Dalla raccolta mazzolariana Oltre le sbarre, il fratello, curata da don Bruno Bignami e don Umberto Zanaboni ed edita da Edb, presentiamo lo stralcio di uno dei due testi inediti presenti. Proviene da un quaderno di appunti intitolati “Beati i misericordiosi”, stilati per una conferenza “pro-carcerati”, tenuta a Genova il 24 febbraio 1940 presso l’Aula magna del Pammatone, già struttura ospedaliera poi adibita a sede universitaria.

Non è forse una debolezza la misericordia? L’uomo non deve vergognarsi di avere «pietà»? Vi son dottrine disumane che vorrebbero cancellare questo sentimento dal cuore dell’uomo, accusandolo di svilire l’uomo. «Beati i misericordiosi» sarebbe un’altra regola di quella «morale servile» di cui ci dobbiamo liberare per essere veramente uomini. E più che predicarlo praticano questo infernale spargimento e se ci guardiamo attorno nel mondo abbiamo modo di inorridire. Come se il soffrire non fosse qualchecosa di umano, la cosa più nostra, l’unica cosa veramente nostra (come se l’atto di S. Martino che divise il mantello al povero non valga almeno quanto un atto di eroismo), come se il valore dell’uomo non fosse in proporzione della capacità di comprendere e risollevare il dolore, invece di crearlo, come se si potesse aumentare l’uomo, impedendogli d’amare. Perché l’amore è pietà. Non va alla creatura felice: la creatura felice è invidiabile più che amabile.

Non c’è posto nel cuore, non c’è un vuoto, un’insufficienza, una porta aperta per entrare. Nella felicità metafisica di Dio l’uomo non era riuscito a entrare. Per farsi amare dall’uomo è diventato «l’ultimo degli uomini, un uomo di dolore che sa ciò che è il soffrire» (Is 53,3). S’è fatto mendicante d’amore crocifisso d’amore. Quelle braccia aperte sulla croce son diventate il documento dell’amore: mentre le braccia dell’uomo «felice» sono chiuse. Egli ha paura di essere derubato della sua piccola «felicità» Cos’è la misericordia? Cosa vuol dire essere misericordioso? Una definizione? Ma è una parola, qualche cosa di astratto, d’inafferrabile.

Vi presento una creatura, una povera creatura, basta essere uomo per essere un pover uomo. Vi accostate il cuore, sentite un altro cuore battere, è vicino, è vostro, è come il vostro. Ecco la misericordia. Com’è facile, com’è grande. E se volete vedere il Misericordioso al quale state per assomigliare in questo gesto di semplice simpatia umana, è Cristo: il quale «voluit per omnia fratribus similare ut misericors fieret» (Eb 2,17). «Comprese le labbra del lebbroso, le tenebre del cieco, la crudele miseria di coloro che vivono nel piacere, la strana povertà del ricco» (Oscar Wilde, De profundis)

Dov’è la «povertà»? Dov’è l’uomo. C’è una sventura nella nostra vita, una mancanza che niente potrà sostituire (non ci sono surrogati per certe esperienze): non abbiamo una conoscenza reale di certe sofferenze. Le immaginiamo: una conoscenza fredda e piena di pregiudizi (o la poesia che diviene rivolta o il pregiudizio borghese di chi non ha mai messo il cuore presso il cuore dell’uomo in pena). Quando Gesù dice al giovane ricco: «Va, vendi ciò e dallo ai poveri» (Mc 10,21), non è soltanto il pensiero dei poveri che lo preoccupa, ma l’anima del giovane, che la ricchezza guastava e che gli impediva di accrescersi nella «ricchezza» esperienza del fratello povero.

Chi conosce il prigioniero? Il condannato? Sofferenze privilegiate e sofferenze dimenticate. Il giudice quando l’ha giudicato ha finito il suo compito e l’affida al potere penale. L’ avvocato dirà l’ultima parola di conforto: soffrirà se avrà creduto alla sua innocenza – l’intimo affanno durerà qualche giorno – poi: altre cause, altri affari, così è la vita. Il cancello della prigione si chiude: la barriera è alzata, impenetrabile, sicura (Società puoi stare tranquilla) nonostante la parola di Cristo: «Ero prigioniero e non m’hai visitato» (Mt 25,43). Un prigioniero – un’esperienza lontana. Vorrei essere stato in prigione – aver provato la condanna degli uomini – la solitudine senza innocenza ecc. Invece, avete davanti «un galantuomo». Che strano suono mi dà questa parola in questo momento! Lo stupore di essere libero, di potermene tornare stanotte alla mia parrocchia, di aver le mani senza manette…

Cos’ho fatto di meglio di quelli che sono dentro? Voi pensate: ora fa della retorica. Vi dico di no, signori, mi vergognerei di fare la commedia. Il pubblicano che in fondo al tempio si batte il petto non fa della retorica. Si conosce e si dichiara (Lc 18,13). Io mi conosco e mi dichiaro con stupore: perché non sono anch’io dentro? È quindi dall’interiore della mia dignità di giudicato, di galeotto che vi parlo. Prendo il mio posto vero. (S. Vincenzo si sostituisce a un galeotto vero). Vi parlo dal di dentro: sono anch’io un prigioniero, un condannato. Il prigioniero? Chi è? Non lo domando al codice, non lo chiedo ai giudici, non lo domando all’opinione dei benpensanti. Sono opinioni che non mi interessano. Lo domando al Vangelo: «Ero prigioniero…». (...) Non disse: ero ricco, ero galantuomo, ero felice… Un Cristo che ha fame, sete, ignudo, malato, pellegrino è meno «infamante» di un Cristo «prigioniero». Anche un Cristo «crocifisso». Anche morire è meno «infamante». [...]

Tant’è vero che nel ricordare la Passione, si parla quasi mai del Prigioniero, non si mette in evidenza la sua qualità di «vinctus», ammanettato. Il «Divino prigioniero» prima di essere un complimento dei nostri libri devozionali, è una realtà, fissa. Finché ci sarà un prigioniero avremo una Presenza del Cristo. La prigione è una Chiesa, una Presenza, un Tabernacolo, dove ognuno può incontrare, vedere il Cristo.

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