giovedì 13 luglio 2023
Il reporter, ospite del festival Geografie sul Pasubio, descrive da trent'anni i mondi ex Urss. «La lentezza è la migliore alleata per vedere, parlare e capire»
Jacek Hugo-Bader

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Jacek Hugo-Bader descrive da trent’anni la caduta dell’Impero sovietico. In Italia sono usciti per Keller i reportage Febbre bianca (trad. M. Borejczuk) e I diari della Kolyma (traduzione di Marco Vanchetti, che ha collaborato anche alla traduzione di questa intervista). Per anni Hugo-Bader ha sognato di occuparsi di sciamanesimo, tema apparso in alcuni dei suoi reportage assieme ad altri aspetti della religiosità popolare della profonda Russia, poiché per lui lo sciamanesimo è anche una chiave di lettura per indagare i rapporti di tipo colonialista che, in questa come in altre parti del mondo, la cultura dominante ha imposto ai gruppi etnici. Ne abbiamo parlato con lui, anticipando alcuni dei temi di cui si occuperà nell’incontro del 15 luglio nelle vicinanze del Rifugio Lancia, in occasione del festival Geografie sul Pasubio.

A emergere dalle sue storie sono spesso sentimenti contrastanti. Quali sono le più grandi contraddizioni che ha incontrato durante i suoi viaggi?

«Il mondo è pieno di contraddizioni. Non c’è modo di liberarsene: ovunque guardi, le vedi. Adoro scovarle e scriverne. Di recente, in Ucraina, non lontano da Kiev, mi hanno messo a dormire nell’ufficio del proprietario della casa dove ho trascorso alcune notti, e sopra la mia testa c’era una vetrinetta con le onorificenze ottenute dal padrone di casa in qualità di funzionario del Kgb. Io in una casa come quella!? Nella casa di un uomo del servizio segreto russo che per qualunque polacco è il simbolo del male infernale, simbolo di crudeltà e di violenza disumana e terribile. Che ci facevo lì!? Questo membro del Kgb è sicuramente un traditore, una spia russa, e di certo non dovrei stare a casa sua. Ma il giorno dopo non ho proseguito il mio viaggio e sono rimasto tutto il giorno a parlare con lui a tavola. È un uomo che dopo la caduta dell’Urss è rimasto in Ucraina e ha continuato a lavorare per i servizi segreti, quelli ucraini, però. E sarà un personaggio eccezionale all’interno del mio prossimo libro. Una strana, bellissima storia. Pura contraddizione. Le cose che amo di più».

Una cosa che colpisce dei suoi reportage è il rapporto con la distanza. Come cambia il concetto di spazio e tempo viaggiando come ha scelto di viaggiare lei? È in netta contrapposizione con la concezione di spostamento del nostro tempo.

«C’è una misteriosa parola russa di origine turca, molto magica, kaif, che spesso viene usata in riferimento allo spazio, alle distanze, alle strade, ai viaggi. Riguarda lo stato d’animo di chi è in viaggio, di chi sta andando da qualche parte, di percorre i vasti spazi russi, totalmente disabitati, vuoi su slitte tirate da tre cavalli, vuoi in auto, o in treno. Il modo in cui si viaggia ha una grande importanza. Ai miei studenti spiego che anche il mezzo di trasporto che scegli influirà sul materiale che raccoglierai per il tuo reportage e quindi su quale libro scriverai. Ho fatto questa scoperta circa 30 anni fa, quando, subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, feci un lungo viaggio in tutte le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Ci andai in bicicletta. Ovviamente, come sempre, completamente solo. Là scoprii che la bicicletta è il miglior mezzo di trasporto per un reporter, perché vai avanti lentamente e non tralasci niente, hai il tempo di osservare tutto con calma, puoi fermarti in qualunque momento, parlare con chiunque, trattenerti e osservare la vita della strada, e in quel momento di certo qualcuno si farà avanti e ti chiederà da dove vieni, cosa ci fai lì, che programmi hai. E tu dici che la sera si avvicina e devi cercare un posto per dormire, e lui ti dice di andare a passare la notte da lui. Ma a casa del tuo ospite dormirai ben poco, perché per la maggior parte della notte cenerete e converserete, e in molti casi si unirà a voi tutta la famiglia e i vicini di casa. Viaggio fondamentalmente sempre così, anche quando non sono in bicicletta. La bici ha però un unico, enorme difetto: va troppo piano. Ho fatto questa scoperta quando sono andato in Cina e in Tibet, quando il primo giorno dopo la partenza da Pechino, e dopo aver percorso 150 chilometri, disegnai sulla mappa della Cina il tragitto percorso. Mi resi conto che quel trattino nero quasi non si vedeva. La Cina è troppo grande per la bicicletta».

Come sono le reazioni delle persone del posto durante i suoi viaggi? Quanto è importante stabilire un legame per scoprire nuove storie? Lei spesso è paragonato a Kapuściński. Un suo celebre libro si intitola Il cinico non è adatto a questo mestiere. Si sente più o meno cinico?

«Nel viaggio di un reporter, la cosa più importante è quello che si viene a creare tra lui e le persone che incontra. Cerco in tutti i modi di far sì che le persone con cui riesco a entrare in contatto non provino disagio a causa di questo, nessun timore, paura o spavento. Senza il supporto della gente del posto semplicemente non riuscirei a sopravvivere. Agli studenti di giornalismo, a cui ogni tanto faccio lezione, dico che chiamo questo metodo “abbracciare il protagonista” del reportage. Quando abbracci qualcuno gli sei vicino nel modo più estremo. Non sei un giornalista arrivato per fare un’intervista. Io non uso nemmeno questa parola, mai: dico sempre alle persone, “vieni, parliamo”. So ascoltare e so anche aiutare le persone a esprimersi; è un grande dono che ho ricevuto da Dio. Questo è il mio modo di lavorare. Non me lo sono inventato, sono semplicemente così. Cerco di essere il più vicino possibile alle persone di cui scrivo. Questa è anche probabilmente anche la risposta alla domanda sul cinismo. No, non sono un cinico».

Che progetti ha per i suoi prossimi viaggi e i suoi prossimi scritti?

«Il libro su cui sto lavorando in questo momento parla dell’Ucraina. Di guerra. Di soldati. Non sono un corrispondente di guerra, conosco solo la guerra cecena, perché quella è parte della Federazione Russa, e quindi è un argomento che mi riguarda. Anche l’Ucraina è un argomento che mi riguarda, ne ho scritto molto prima della guerra, e poi questa guerra è arrivata a casa mia insieme a una famiglia ucraina che ha vissuto con noi per qualche mese, ma non parlerò di questo; parlerò dei soldati ucraini. E quello successivo parlerà di sicuro della Russia, quando, immagino a guerra finita, potrò tornarci. Voglio domandare ai russi perché appoggiano questa guerra».

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