martedì 17 febbraio 2015
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In uno dei due campi di concentramento femminile di Riccione Misano, nell’immenso enclave di Rimini, che dopo la resa della Germania fu allestito sulla costa adriatica da Cervia a Cattolica per una lunghezza di 55 km, erano trattenute le tre figlie di Rashîd ’Alî al-Gaylânî (1892-1965), ex primo ministro del regno dell’Iraq.Figlio di Abdul Wahhab al-Gaylanî, di famiglia sunnita discendente da Maometto, ex capitano dell’esercito ottomano divenuto avvocato, nel 1931 fu tra i fondatori del Partito nazionalista arabo che contrastava il dominio inglese. Pur non nutrendo simpatie per nazismo e fascismo, si era alleato con Hitler e le potenze dell’Asse insieme a Mohammad Amîn al-Husaynî, Gran Mufti di Gerusalemme, che combatteva la Jewish National Home – il cosiddetto «Focolare nazionale ebraico» promesso da Balfour nel 1917 nello smantellamento dell’impero turco – e insieme a Chandra Bose dell’India.Fino al 1947 l’enclave romagnolo detenne circa trecentomila prigionieri, tra militari e civili, soprattutto tedeschi, ma anche di altre nazionalità assorbite nell’esercito germanico: caucasici turkmeni della 162ª Turk Division, SS fiamminghe, francesi, danesi, norvegesi, baltici, polacchi, l’intera divisione ucraina, quasi tutta la galiziana, e anche italiani della Repubblica Sociale. Nonostante l’opposizione del Comune, Rimini – provata dai bombardamenti più catastrofici e già zona di sfollati – era stata scelta per la posizione strategica sulla via Flaminia, l’aeroporto, le ampie strutture di colonie, alberghi, ville.Di quell’enclave si sa abbastanza: l’organizzazione inglese e canadese che lasciò l’ordine dei militari tedeschi; la fondazione di un giornale, di un’università; la fuga di criminali come Priebke; la funzione di smistamento definitivo: l’opposta sorte di russi e ucraini, quali rispediti a morire in Urss quali salvati in Inghilterra; il folto mercato della borsa nera e del sesso a fianco del filo spinato; i bagni estivi marini a 2000 soldati per volta. Si sa invece pochissimo dei due campi femminili, che raccoglievano ausiliarie, simpatizzanti dei regimi e anche donne pregiudicate e pure di malaffare che alla colonia ferrarese dell’Abissinia, gestita dai canadesi, richiamavano i passanti. Al Grand Hôtel e nei migliori alberghi di Riccione risiedevano i comandi alleati.Alla fine del 1939, dopo lo scoppio della guerra, il Mufti andò a Baghdad, dove Gaylanî cercava da tedeschi e italiani un concreto sostegno bellico. Esso giunse scarso e tardivo. Rovesciato lo Stato, nell’aprile 1941 Gaylanî assediò la base inglese di Habbanyia. Presto gli inglesi ripresero il potere. Ai primi di giugno inglesi e russi invasero la Persia di Reza Shah Pahlavi, dove Gaylanî si era rifugiato con il Mufti. Attraverso la Turchia, entrambi volarono in Germania. Offersero a Hitler volontari arabi; ne nacque una sezione di SS di islamici bosniaci.Intanto, mentre il Mufti promuoveva attivamente il genocidio ebraico, a Bagdhad si scatenò il Farhud del 1° e 2 giugno 1941, il pogrom degli ebrei che da migliaia d’anni abitavano la terra caldea, la Mesopotamia dell’Eden biblico. Da quel momento gli ebrei cominciarono a fuggire, a ridursi – come oggi i cristiani – perseguitati in Iraq, in Siria e altrove.
Nel 1942 i due soci, sempre più in conflitto – Gaylanî laico interessato all’Iraq, Husaynî al panarabismo islamico – visitarono ripetutamente Mussolini (dagli anni Trenta finanziava i Palestinesi e sosteneva i nazionalismi arabi, pur mirando al Mediterraneo), intrecciando tra Italia e Germania intenti e azioni che non furono mai decisive, perché Hitler preferì il fronte russo al Medio Oriente.Nel ’45 dunque a Riccione le Gaylanî si trovavano prigioniere di guerra. Fu così che pervennero degli aiuti alle figlie di Gaylanî attraverso la mia famiglia. Mia mamma frequentò quelle giovani coetanee, e ne nacque un rapporto alquanto affettuoso, a giudicare dalle lettere tenere e confidenziali che si concludono da parte loro con «molti molti baci orientali». I miei di sicuro ignoravano ogni storia più inquietante della famiglia Gaylanî, e vedevano solo delle ragazze in un campo di prigionia. Le foto che dedicarono a mia madre il 17 agosto 1946 erano state scattate a Dresda dal fotografo Berger, Seestrasse 21, e stampate su carta Gevaert (ditta poi unita ad Agfa): la bellissima Dresda che tutti si immaginavano sarebbe stata risparmiata, mentre – come si sa – vi si abbatté la tempesta di fuoco del 13-14 febbraio 1945.Le Gaylanî erano vissute a Berlino, ma la lettera che scrisse Neigle in italiano il 26 gennaio 1947, da una lussuosa residenza di Midan El Finney, vicino alla zona di Dukki al Cairo, con altra foto dedicata alla «mia carissima sorella Luisa», fa pensare che avessero appreso la lingua in un soggiorno italiano, o forse nello stesso campo di concentramento. Lamenta la vita in assenza del padre, la disgrazia, quando tutte le loro amiche avevano paura e non le avevano aiutate: tutti gli altri dicevano «noi ... siamo signori», ma «la verità è che voi siete i veri signori». Spera che un giorno vedranno tutti loro a Baghdad. Ricorda le altre ragazze del campo, «poverine». Lei ora è «stanca... molto stanca di vivere nell’Oriente», dove non c’è la libertà che ha avuto in Europa. Vorrebbe ritornare, anche se lì hanno tutto quello che vogliono: è una «vita così comoda che mi stanca», ripete due volte. Vorrebbe essere in Italia.
Mia mamma non sapeva chi fosse quel loro «caro papà» già alleato di Hitler, che li ringraziava attraverso le figlie («La parola "grazie" non è abbastanza»): un padre sempre in fuga, che era così assente dalle loro vite. Per quel che ne so anche io, ossia pochissimo, si appoggiò agli ufficiali egiziani, uno dei cui capi era Anwar Al Sadat, che divenne presidente della Repubblica egiziana dopo Nasser, con cui pure Gaylanî fu in buoni rapporti, come mostra una foto del 1958. Gaylanî rimase esule in Arabia Saudita (ecco l’asse dei wahabiti, non compresi dagli americani), ma tornò in Iraq nel 1958 quando fu abbattuta la monarchia, tentando di nuovo, invano, di prendere il potere; fu condannato a morte e perdonato, e morì a Beirut nel 1965. Uno zio di Saddam Hussein era stato suo collaboratore.Le figlie di Gaylanî avevano assaporato il frutto dell’albero della vita, la libertà, e assorbito tutto il veleno in una posizione privilegiata. Non so quanto si rendessero conto degli orrori del regime nazista, loro abituate a un Oriente che opponeva la prigione delle residenze dorate sia all’autonomia effimera della prima fase europea, sia a quella umiliante della seconda fase italiana del campo di concentramento. Non tornarono in Europa, né in Italia. Non divennero turiste, come i tedeschi dell’enclave che si sarebbero riversati sull’Adriatico nei primi anni Cinquanta, e con i cui figli giocai da bambina, sulla spiaggia di Riccione.Riporto lo sguardo su quell’intreccio di bene e di male, di salvezza e di perdita, che da allora ci proietta in uno scenario sempre più internazionale non solo europeo. Saremo in grado di sostenere le nuove prove che si stanno profilando? Non ci sarà salvezza alcuna se nell’islam prevarrà il fondamentalismo teocratico e prima ancora, alla base di tutto, se la giustizia non sarà alla pari per le donne.
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