venerdì 13 agosto 2010
Il grande pianista napoletano e francese d’adozione si racconta dall’esordio sotto le bombe americane ai concerti con Furtwängler all’insegnamento. «Ma ai giovani dico: via dall’Italia»
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Aveva 17 anni quando esordì al San Carlo. Aldo Ciccolini, quel giorno, non lo può dimenticare: «Ha avuto luogo il 4 dicembre 1942, durante il primo grande bombardamento diurno americano su Napoli. Abbiamo potuto eseguire il Primo concerto di Chopin, poi abbiamo aspettato in teatro fino alle 3 del mattino per uscire». E con un programma tutto chopiniano il grande pianista partenopeo, nato nel 1925, festeggerà i suoi 85 anni. Lo farà in Francia, suo paese adottivo da 40 anni, dove domenica, giorno del suo compleanno, la Roque d’Anthéron, il più importante festival pianistico europeo, gli dedicherà una speciale soirée.Maestro, come ha scoperto il pianoforte?La mia famiglia teneva molto all’educazione musicale. Mio padre, un tipografo, notò il mio desiderio di suonare e mi fece la domanda rituale: «Sei disposto ad affrontare lunghi studi faticosi?». Avevo 5 o 6 anni. Ed ebbe l’idea giusta di affidarmi a una maestra, Maria Migliarolo, che fu allieva di Beniamino Cesi.Quanto conta il primo insegnante?È la cosa più importante di tutta la carriera. Con lei per tre anni ho lavorato solo sul suono. Poi a otto anni ho dato l’esame di quinto al conservatorio di Napoli. Fu grazie a Cilea, allora direttore, che chiese per me una dispensa, dato che ero ben al di sotto dei limiti d’età. Entrai nelle classi di composizione e pianoforte. Mi diplomai in strumento a 15 anni nel ’40 e a diciassette in composizione.Che rapporto aveva con la composizione?Mi interessava molto. Ma ho capito presto che la mia personalità non era tale da giustificare studi più approfonditi. È stata però una fortuna per la mia carriera di esecutore, perché ho avuto subito un’altra visione, più profonda, del tessuto musicale.Poi a Parigi nel 1949 e gli studi con la Long e Cortot.Di Marguerite Long mi impressionava l’orecchio di una finezza inquietante: nonostante l’età poteva percepire variazioni di suono infinitesimali. Con Cortot invece ho imparato ad analizzare la musica.Quasi 70 anni di carriera. I ricordi più belli?Tra i tanti due mi commuovono ancora oggi. Uno è il mio debutto al Carnegie Hall di New York con Mitropoulos. L’altro è quando venni chiamato a sostituire Kempf, malato, nel Quarto concerto di Beethoven con Furtwängler sul podio. Ero preoccupatissimo, per me lui era un grande mito. «La prego di dirmi tutto quello che pensa» gli chiesi dopo la prova. «Suona come hai fatto ora e andrà tutto bene» rispose. E così fu.Lei è anche un grande didatta...Prima di divenire docente al Conservatorio di Parigi nel 1972 non avevo mai insegnato. Poi è diventata una passione. Ora dico che mi piace suonare quanto insegnare.Oggi in Italia studiare musica rischia di essere una scommessa dura da vincere. Che consiglio darebbe ai giovani?Quando feci la stessa domanda a De Filippo lui rispose in napoletano «Iatevenne!», andatevene. È un consiglio che purtroppo devo dare anch’io. Ed è un peccato perché, dopo alcuni anni di stasi, ho notato una rinascita del talento pianistico italiano. Chi vuole tentare deve andare all’estero. Ma i paesi latini sono sempre più difficili. Anche qui in Francia. Le dirò però anche un’altra cosa: bisogna cercare le motivazioni che spingano un giovane a fare della musica. Se noi pensiamo che la musica può essere un mezzo di promozione sociale, ci sbagliamo. La musica non è mestiere, non è un lavoro: è un sacerdozio.Quali sono i problemi maggiori che affliggono il nostro Paese?Certo il taglio progressivo dei fondi alla cultura. Ma ci sono motivi più profondi, di sistema.Si riferisce ai conservatori?Sì. Io ho vissuto un’epoca d’oro. Ho studiato con gli eredi di una tradizione strumentale che discendeva da Busoni e Liszt, tra le prime a livello europeo. Questo poteva accadere perché gli insegnanti erano specializzati nella didattica. Qualcuno si è mai chiesto come abbiamo potuto avere pianisti come Benedetti Michelangeli? Oggi chi insegna spesso è il concertista mancato. La decadenza ha ragioni storiche. Quando io frequentavo il conservatorio di Napoli, le classi di pianoforte erano quattro. Nel dopoguerra il numero di cattedre si è inflazionato. Oggi ci sono istituti che vantano 35 classi di pianoforte. E la selezione, degli studenti e degli insegnanti, va a farsi benedire.Che rapporti ha avuto con la musica contemporanea?Poco o nessuno. Sono interessato alla dodecafonia e ho suonato con piacere il Concerto di Schönberg. Così come ho avuto interesse per Casella, Malipiero, Dallapiccola. Poi mi sono fermato. Ho avuto l’impressione che si scrivesse sempre più una musica avulsa dall’umano, ridotta a semplice fenomeno sonoro. Ma di per sé la musica non può esistere. Deve sempre parlare al’uomo.
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