mercoledì 29 maggio 2019
Le lettere di casa Leopardi compongono un involontario romanzo collettivo all’interno del quale spicca la sorella del poeta
Paolina Leopardi (1800-1869)

Paolina Leopardi (1800-1869)

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L’epistolario è il grande romanzo collettivo di casa Leopardi. Due forze lo attraversano, opponendosi e intrecciandosi di continuo. La prima a manifestarsi è l’attrazione centripeta esercitata da Recanati, dal palazzo avito, dalla biblioteca allestita dal conte Monaldo filiis amicis civibus, ossia per i concittadini, gli amici e i figli, i quali ultimi spezzano però questo equilibrio apparente, introducendo un’istanza di natura centrifuga. Il massimo punto di attrito è rappresentato, com’è noto, dalla lettera che Giacomo compone nel luglio del 1819, alla vigilia della fallita fuga da Recanati, e che non verrà mai recapitata al destinatario, il padre Monaldo.

Un documento fondamentale anche nell’elaborazione dell’Infinito e che, come la lettera che un secolo dopo Franz Kafka scriverà al padre Hermann, oscilla tra affetto tradito e ribellione, tra recriminazione e non dissimulata ricerca d’amore. In quel romanzo involontario che è appunto l’epistolario di famiglia, la corrispondenza tra Giacomo e Monaldo occupa senza dubbio la posizione più evidente, ribadita più di trent’anni fa dall’edizione approntata da Graziella Pulce per Adelphi con il titolo Il Monarca della Indie (il saggio introduttivo era di Giorgio Manganelli). Ciò non significa che il resto della famiglia vada relegato in secondo piano.

Anche negli scambi tra il padre erudito e il figlio poeta, per esempio, interviene spesso il fratello Carlo, di appena un anno più giovane di Giacomo e a lui vicino per sensibilità e interessi. E poi c’è Paolina, la terzogenita. Nata nel 1800, riceve un’educazione identica a quella impartita ai fratelli: i classici, le scienze, addirittura la facoltà – espressamente ottenuta da Monaldo con dispensa pontificia – di leggere le opere altrimenti interdette dall’Indice.

Intelligente, non bella, la “Pilla”, come affettuosamente la chiama Giacomo, sembrerebbe adeguarsi al richiamo accentratore di Recanati. «Paolina, che non ha mai lasciato il genitore», scrive di sé in una “memoria” datata 1848, ma anche questa affermazione va letta in controluce. Certo, la contessina non si è mai sposata, nondimeno è stata lei in persona a rifiutare più di un pretendente. È rimasta al fianco di Monaldo, al punto da diventare la principale collaboratrice della Voce della Ragione, il giornale conservatore che il padre pubblica con discreto successo negli stessi anni in cui il figlio vede fallire i propri progetti editoriali. Non per questo, però, i gusti di Paolina coincidono con quelli del “genitore” e, a ben vedere, neppure a quelli dello stesso Giacomo.

Agli «immensi tomi in foglio» di argomento patristico e scritturale lei preferisce gli scritti di Madame de Staël e di Xavier de Maistre (del cui Viaggio notturno intorno alla mia camera è anche traduttrice), le opere di Stendhal, i romanzi sensazionalistici di Eugène Sue. E i resoconti di viaggio, si capisce, quei viaggi che le sono a lungo interdetti e la cui mancanza lamenta in modo accorato nelle lettere – scambiate di nascosto alla madre Adelaide, dispensatrice di «regole di austerità assolutamente impraticabili» – con le sorelle Brighenti, che Giacomo aveva conosciuto nel 1825 a Bologna.

In loro, e in particolare nella cantante Marianna, Paolina è convinta di trovare la pienezza di un’amicizia femminile che si manifesterà solo più tardi nella sua vita, ancora una volta per il tramite del fratello Carlo. Rimasto vedovo, nel 1858 Carlo sposa infatti la piemontese Teresa Teja, vedova a sua volta, per la quale Paolina prova una simpatia immediata e duratura. Teresa è, per molti aspetti, l’opposto della Pilla: attraente, esperta del mondo, conosce le lingue per uso di conversazione e non solo per applicazione libresca (non riuscirà mai a convincere l’amica che l’espressione francese être en délicatesse vada intesa in senso ironico e non letterale).

Ma la seconda moglie di Carlo è anche una figura controversa sia nell’ambito familiare sia nella valutazione degli studiosi. La si accusa, in particolare, di essere all’origine della dispersione precocemente toccata alle carte di Giacomo, oltre che di disinvoltura eccessiva nella selezione e divulgazione degli inediti. Il suo fu, in ogni caso, il primo progetto organico di valorizzazione del patrimonio archivistico di casa Leopardi, magmatico epistolario compreso.

Vanno inserite in questo contesto le Lettere di Paolina Leopardi a Teresa Teja dai viaggi in Italia ora curate da Lorenzo Abbate e Laura Melosi per Olschki e accompagnate da una puntuale nota della direttrice del Gabinetto Vieusseux di Firenze, Gloria Manghetti (pagine 256, euro 28,00). Concentrate nell’ultimo decennio di vita di Paolina, sono sopravvissute nella trascrizione effettuata dalla stessa Teja, che aveva già predisposto tagli e aggiustamenti di cui il volume attuale dà conto, senza tuttavia sottrarre al lettore nessuna porzione di testo. Rispetto al Monarca delle Indie, che del romanzo epistolare costituisce il capitolo più drammatico, qui ci spostiamo in una zona del tutto imprevista, quasi da commedia galante.

La Paolina che nel 1859 inizia a spostarsi verso Fermo per poi spingersi sempre più lontano (a Bologna e a Firenze, nelle Puglie e a Napoli, ad Ascoli e a Pisa, dove muore il 13 marzo 1869 assistita dalla cognata) è una donna curiosissima del mondo, che si lascia tentare dai grandi magazzini dell’epoca e prova ad approfittare delle vendite d’occasione, si concede il lusso di farsi fotografare dal leggendario Alinari e non si dispiace, non si dispiace affatto quando le chiedono di parlare del fratello, la cui gloria postuma si riflette su di lei.

Ha un gusto infantile dell’impresvisto, questa Pilla liberata, non disdegna l’avventura e si interessa della politica d’Europa attraverso la lettura di giornali e gazzette il cui andirivieni occupa una porzione non trascurabile della corrispondenza con Teresa. «Carina» e «carinella » sono i nomignoli che più di frequente rivolge alla cognata, mentre in modo un po’ ossessivo tiene il conto delle lettere in arrivo da Recanati: la diciannovesima, la trentaseiesima...

Si ha la sensazione di sentire l’eco di un’orchestrina che suona al riparo di un gazebo, quando Paolina scrive. Ma poi, all’improvviso, si fa silenzio, un silenzio che ricorda Giacomo. «Io penso – osserva la contessina in una lettera da Pisa – che a tutti a noi accada lo stesso, cioè che senza mover bocca si discorre sempre fra noi, a me anche così, e forse è per questo che sto sempre zitta».

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