lunedì 11 maggio 2020
Nella Storia dell'Anello il compagno di Frodo è chiamato a compiere gesta di raro coraggio. Una maturazione guidata dall'affetto che consolida la sua capacità di custodire l'altro
Sam Gangee nella trilogia cinematografica del Signore degli Anellli

Sam Gangee nella trilogia cinematografica del Signore degli Anellli - © 2001 - New Line Productions, Inc.

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Ci ha cambiato e ci sta cambiando l’emergenza? E come? Pochissimi – facciamo pure “non pervenuti” – gli inguaribili ottimisti, convinti che avremo fatto tesoro di questo tempo e diventeremo un’umanità migliore. Qualche adesione la registra il gruppo dei possibilisti, di chi dice che ci troviamo davanti a una grande opportunità per ripensare il nostro stile di vita e che faremmo bene ad approfittarne. Poi c’è la controretorica disillusa de “l’uomo è quello che è, passata la paura...”, che nella sua versione più estrema può raggiungere il “saremo certamente peggiorati”.

Solo il tempo darà una risposta. Qui, come al solito, ci limitiamo a cercare nella storia dell’Anello qualche spunto, qualche briciola di saggezza. E il personaggio giusto per parlare di cambiamento sembrerebbe essere il vero protagonista della parte conclusiva di Le due Torri, Sam, l’umile giardiniere che riuscì ad avere la meglio su Shelob, un mostruoso ragno di enormi dimensioni.

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Un cambiamento, una maturazione del personaggio al termine di una storia non ci sorprenderebbe affatto. Ci chiediamo invece qualcosa di più preciso: se un grave pericolo è capace di cambiare radicalmente una persona, se può essere determinante per un’autentica metamorfosi. Un discorso su Frodo o Gollum ci porterebbe troppo lontano, perché coinvolgerebbe il potere soprannaturale dell’Anello, con cui sono stati a lungo a contatto. Guardiamo piuttosto a Sam, e chiediamoci se al suo ritorno alla Contea sia una persona del tutto diversa da quella che era partita, dal giardiniere che origliava i discorsi fra Gandalf e Frodo nascosto fra le piante.

Se la storia narrata da Tolkien è capace di illuminare il nostro quotidiano, lo si deve soprattutto agli hobbit, creature umili e pacifiche, amanti del cibo e della vita semplice. La scelta di Tolkien è interessante: non fa un’epica degli umili, ma trascina in uno scenario eroico delle creature che di epico avrebbero ben poco. E non relega gli hobbit a dei ruoli da comprimari, al contrario: Frodo e compagni risulteranno fondamentali per il compimento della missione.

Quando si ritrova con Frodo nei pressi di Mordor, Sam si rende conto che simili scenari non gli sono del tutto ignoti. Finora ne ha solo sentito parlare “nelle vecchie storie e canzoni” che ama, ma questa volta si ritrova inaspettatamente a vestire i panni del protagonista alle prese con una situazione a dir poco disperata. Che affronta con tutto se stesso, con la sua assoluta lealtà, ma anche con certe sue insicurezze e talvolta con un senso di inadeguatezza.

Ha portato la Contea sempre con sé. Non solo sotto forma di nostalgici ricordi, di immagini e sapori, ma anche e soprattutto grazie a una voce, la voce interiorizzata del padre, Hamfast Gamgee. È la voce del buon senso hobbit, che non concepirebbe le situazioni in cui Sam si è cacciato (“Il Vecchio avrebbe una cosa o due da dire, se mi vedesse ora!”), ma che al tempo stesso sa rincuorare e dispensare saggezza (“finché c’è vita, c’è speranza, come diceva il mio Vecchio... e bisogno di provviste, come molto spesso aggiungeva”). Sam porta con sé, però, anche la sua grande curiosità, quel gusto per il bello e per l’ignoto così raro per uno hobbit che, insieme all’affetto che lo lega a Frodo, lo ha condotto così lontano dalla Contea, fuori – si direbbe oggi – dalla sua comfort zone.

E proprio lui, che di sé dice “sono solo un hobbit, e a casa mi occupo di giardinaggio”, si ritrova a compiere un’impresa senza pari. Nessun elfo o uomo aveva mai affrontato con successo Shelob, questo “essere malvagio dalla forma di ragno”. L’inaspettata vittoria sul mostro che aveva avvolto il suo padron Frodo nella vischiosissima tela, però, non basterà a far entrare Sam nel novero degli epici eroi uccisori di mostri. Lui stesso sorriderà “tristemente” ascoltando di nascosto gli orchi che in un secondo momento entrano nella tana di Shelob e immaginano l’accaduto, concludendo che il mostro sia stato trafitto da un grande guerriero, probabilmente un elfo. Del resto, non sappiamo neanche se Shelob sia effettivamente morta dopo esser stata trafitta (“questa storia non lo racconta”) e, a voler essere precisi, Sam la colpisce più volte, ma è il mostro a procurarsi la ferita più grave piegandosi “con la forza violenta della sua crudele volontà, con possanza maggiore della mano di qualsiasi guerriero” sulla lama elfica tesa dallo hobbit.

Sam, in realtà, continua a essere fedele a se stesso. Anche e soprattutto nei suoi timori, nei suoi passi falsi che lo rendono un personaggio ancora più amabile. Quando più tardi rischia di dover fronteggiare un nuovo pericolo – questa volta si tratta di orchi – Sam è nuovamente in preda alla paura, tanto da infilare l’Anello e scomparire: “ma c’era una cosa che l’Anello non conferiva, ed era il coraggio”. Non è certo il coraggio a tutti i costi a fare l’eroe, ma torna in Sam la consapevolezza di non essere un vero guerriero.

Cosa lo ha spinto allora a reagire così prontamente contro il mostro? La disperazione, certamente, ma soprattutto l’amicizia devota che lo lega a Frodo. Nel momento supremo della lotta fra la vita e la morte, Sam “non si attardò a pensare che cosa fosse necessario fare, o se fosse coraggioso, o leale, o pieno di rabbia”. La carica di Sam è furia totale, istinto puro, “una forza disperata” spinta dalla necessità di salvare l’amico. Egli sa essere eroico, di un eroismo che si traduce nella cura assoluta per Frodo e che solo le circostanze estreme portano a manifestarsi in maniera così risoluta e violenta. Il rischio lo ha spinto a far ricorso alle sue risorse più nascoste senza però farne una persona diversa. Non a caso, poco prima di affrontare Shelob, impugnando la Fiala di Galadriel per farsi luce, Sam si abbandona per un attimo al ricordo degli amati Elfi, per poi tornare nuovamente in sé per affrontare il mostro: “ed era di nuovo Samwise lo hobbit, il figlio di Hamfast”.

Quando invece si impone di seguire una strada che non gli appartiene, Sam rischia di commettere il più grave degli errori. Credendo Frodo morto, si trova a decidere su come proseguire: da una parte non vorrebbe mai lasciare il cadavere dell’amico nella tana del mostro, dall’altra sa che sarebbe inutile rimanere lì quando c’è ancora una speranza di distruggere l’Anello. L’incertezza lo divora e la solitudine pesa come un macigno: “Vorrei non essere l’ultimo rimasto. Vorrei che fosse qui il vecchio Gandalf, o qualcun altro. Perché sono rimasto solo a decidere? Sono sicuro di sbagliare”. Il suo cuore è in subbuglio. Sam prova allora ad esaminare razionalmente le due opzioni e infine, per mantenere fede all’impegno preso con Elrond e il Consiglio, va via con l’Anello, non prima di aver rivolto un commovente addio a Frodo.

“Continuava a ripetersi “ho deciso”, ma non era vero. Nonostante avesse fatto del suo meglio per rifletterci su, quello che stava facendo era del tutto contrario alla sua natura”. Solo dopo aver ancora esitato, si accorgerà di aver scelto imponendosi un eroismo che non è il suo. Ascoltando gli orchi che hanno trovato Frodo nella tana, scoprirà che il suo amico non è morto e dirà a se stesso: “Sciocco. Non è morto e il tuo cuore lo sapeva. Non fidarti della tua testa, Samwise, non è la parte migliore di te”. Sam si è convinto definitivamente che è fondamentale dare ascolto alla “parte migliore” di sé, perché è l’unico modo per compiere la sua vera missione: non portare l’Anello, ma stare al fianco di Frodo. A farlo tornare sui suoi passi è stato proprio il timore di non rivederlo mai più.

Il pericolo, che ha trascinato Sam nel territorio della paura, lo costringe a mostrare la sua vera essenza. Ciò che invece cambia realmente Sam, o meglio, che lo fa maturare, non sono tanto le imprese compiute o le difficoltà superate (e il cammino verso Monte Fato ne prevede ancora molte), quanto l’affetto sincero per Frodo, che consolida la sua capacità di custodire e prendersi cura dell’altro. Al suo ritorno, dopo che anche la Contea sarà pacificata, Sam diventerà un marito e un padre. E poi ancora Sindaco per ben sette mandati consecutivi. Infine, a lui Frodo affiderà il Libro Rosso dei Confini Occidentali, in altre parole l’intera Storia dell’Anello.

La vicenda di Sam più che dare una vera e propria risposta alla domanda iniziale, la porta su un altro livello. Forse il pericolo di per sé non trasforma, non aggiunge né sostituisce. Semmai priva, sottrae, spoglia. Di certezze, per esempio, o magari di una certa idea di come le cose dovrebbero andare. Ma in questa opera di sottrazione, in questo inaspettato disordine che certo complica il quadro, ma per altri versi semplifica, sfronda, c’è anche la possibilità di riconoscere con maggior immediatezza una chiamata. Un’idea evidentemente cara a Tolkien e riproposta più volte nella sua opera, che può rappresentare l’eredità più preziosa di questo tempo.

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