lunedì 18 maggio 2020
Da Denethor a Théoden, dal capo dei Nazgûl ad Aragorn: non solo il potere è uno dei grandi temi del romanzo ma Tolkien ne delinea una vera e propria teoria critica attraverso personaggi a tutto tondo
Aragorn re di Gondor nel film tratto dalla saga di Tolkien

Aragorn re di Gondor nel film tratto dalla saga di Tolkien - 2001 - New Line Productions, Inc.

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La Guerra dell’Anello è giunta al culmine con la battaglia dei Campi del Pelennor. Le imprese compiute dentro e fuori il campo di battaglia, però, sembrano quasi un pretesto per una riflessione sui sovrani e sul loro rapporto col potere. Denethor, Théoden, Aragorn non sono solo uomini assai diversi fra loro, ma incarnano anche modi diversi di gestire la responsabilità di governare.

Quando, in una situazione grave come quella in cui ci si trova, lo Stato applica misure eccezionali, arrivando addirittura a limitare alcune libertà di base del cittadino, è inevitabile che anche l’attenzione per i leader politici, per le loro decisioni e il modo in cui le comunicano sia straordinaria. Del lockdown ricorderemo la grande paura – quella di perdere i propri cari o di ammalarsi – e i mesi in casa, scanditi soprattutto dal rito dei bollettini e delle conferenze stampa, in cui i leader dei vari paesi hanno mostrato stili e intenti diversi. C’è chi è riuscito a incoraggiare e rassicurare, chi ha mostrato di saper collaborare in maniera costruttiva con gli esperti e chi li ha messi in imbarazzo suggerendo improbabili cure “fai da te”; si è assistito a prodigi di chiarezza comunicativa o di vaghezza; qualcuno ha cercato di sdrammatizzare con ironia, qualcun altro l’ironia l’ha suscitata suo malgrado (ma è davvero così difficile indossare una mascherina?); certi leader hanno spiazzato con uscite al limite del cinismo, talvolta strumentalizzando la situazione o, per non perder l’abitudine, additando un “altro” – e sempre e solo un altro – come responsabile dell’intero disastro.

Il potere è uno dei grandi temi de Il Signore degli Anelli. Non a caso l’Anello è l’Anello del Potere, e rappresenta anche e soprattutto la tentazione di esercitare un controllo assoluto. A ben pensarci, Tolkien non propone dei meri archetipi di sovranità, ma, come suo solito, dà vita a personaggi a tutto tondo, con una personalità complessa che si riflette inevitabilmente nel loro rapporto col potere. Denethor non è un re, ma il Sovrintendente Regnante di Gondor. In attesa del ritorno a Gondor dell’erede di Isildur, è la sua prestigiosa casata a governare. La consapevolezza della precarietà della sua posizione rende Denethor sospettoso e ansiosamente attaccato al trono. Il suo desiderio, destinato a essere frustrato, di controllare persone e situazioni, lo porta a essere un padre possessivo, prima ancora che un governante discutibile. È particolarmente legato al figlio maggiore, Boromir. Osserva Gandalf: “Lo amava molto. Forse anche troppo. E ancor di più perché erano diversi”.

Il figlio minore, Faramir, è invece colpevole agli occhi del padre di subire l’influenza di Gandalf. Denethor non risparmia paragoni fra i due figli e arriva a dire al più giovane: “[Boromir] avrebbe ricordato la necessità di suo padre e non avrebbe sperperato quanto concesso dalla sorte. Mi avrebbe portato un dono potente”. Il riferimento è ovviamente all’Anello, ma è particolarmente interessante l’immagine usata, quella del dono: Denethor è un padre che invece di donarsi vuole ricevere. Il suo non è un amore gratuito, ma condizionato: ama i suoi figli nella misura in cui soddisfano le sue richieste.

L’individualismo e la mancanza di fiducia nell’altro lo caratterizzano anche come governatore. Avversa apertamente Gandalf, e non si fida delle sue opinioni. Anche su cosa fare con l’Anello ha un suo personalissimo parere. Non cercherebbe di distruggerlo, come fa Gandalf, ed è saggio abbastanza da non illudersi di poterlo usare, come avrebbe voluto Boromir: a suo avviso l’Anello andrebbe solo nascosto. Pippin noterà che il Sovrantindente mostra più anni del dovuto, gli appare come “un vecchio ragno paziente”: solo più avanti si scoprirà come Denethor, nella sua solitudine, si sia premurato di osservare i preparativi di Sauron utilizzando un palantír, una sfera di cristallo, e abbia consumato le sue energie per resistere al suo controllo. Si è però convinto che ormai non ci sia speranza e pertanto non è in grado di darne ai suoi sudditi, che si rifiuta di accompagnare in battaglia: “[Sauron] usa altri come sue armi. Così fanno tutti i grandi signori, se sono saggi, Mastro Mezzuomo. Altrimenti perché starei seduto qui nella mia torre a pensare, e osservare, e attendere, rischiando persino i miei figli?”.

Ormai il legame con la sua gente è compromesso, e decide addirittura di dar fuoco a se stesso e a Faramir – ferito in battaglia, ma ancora vivo – convinto che la fine di Gondor sia giunta. Nella sua follia, si cura esclusivamente del tramonto del suo prestigio e della sua casata, accusando Gandalf, che tenta invano di farlo ragionare, di tramare per governare al suo posto. “Orgoglio e disperazione”: queste – nelle parole dello stregone – le colpe di Denethor.

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Del tutto opposta a quella di Denethor è la figura di Théoden, al cui “risveglio” abbiamo già dedicato una delle nostre precedenti riflessioni. Il re di Rohan è una figura nobile e generosa, che governa con l’esempio. Guida i suoi in battaglia in prima linea e infonde fiducia e speranza. Antepone il bene di tutte le genti occidentali a quello del suo popolo, accettando di andare in soccorso di Gondor. Non si isola al comando, ma mostra stima nei confronti degli altri capi, ascoltando le loro opinioni prima di decidere. Come Denethor, ha perso suo figlio, ma sa ancora vivere la paternità prendendosi cura dei nipoti Éomer e Éowyn e della sua gente (viene definito “padre degli Uomini dei Cavalli” dal capo della popolazione selvaggia dei Drúedain). Merry, che Théoden accoglie in servizio per proteggerlo, gli giura fedeltà dicendo: “Sarai per me come un padre”.

Il re di Rohan morirà in battaglia, dando prova di grande valore. “Non abbiate paura delle tenebre” ripete ai suoi, e muore benedicendo Merry e salutando Éomer come suo successore: “Salve, Re del Mark! Ora cavalca verso la vittoria! E porta il mio addio a Éowyn!”. Mentre pronuncia le ultime parole è circondato dai suoi, che versano lacrime su di lui e lo omaggiano gridando: “Théoden Re! Théoden Re!”.

Quando Théoden cade da cavallo, il capo dei Nazgûl tenta di avvicinarglisi per finirlo. Dovrà vedersela con Éowyn e lo scontro porterà alla sua inaspettata caduta. Anch’egli è stato re, è il Re Stregone, sovrano di Angmar. È uno degli Uomini che si sono lasciati corrompere dai nove Anelli minori donati da Sauron. La sete di potere, dunque, lo ha reso uno schiavo e lo ha privato della sua umanità fino a trasformarlo in uno spettro: per rendersi visibile deve indossare un manto, del suo volto si intravede solo il bagliore dello sguardo, poco più in alto è sospesa una corona di ferro. Tolkien ci dice poco di lui, non ne rivela neanche il nome, ma solo i titoli: “Re, Spettro dell’Anello, Signore dei Nazgûl, egli era ben armato”.

Nella sua disumanità, si identifica totalmente col suo servizio al Nemico, cui ha consacrato la sua perversa esistenza. E del resto, è difficile tracciarne un profilo, le uniche parole che pronuncia sono minacce, come quelle celebri rivolte a Gandalf (“Vecchio pazzo! Questa è la mia ora. Non riconosci la Morte quando la vedi?”) e a Éowyn (“Non metterti fra un Nazgûl e la sua preda...”). Che la sua brama di potere lo abbia condannato a un graduale svuotamento di sé, è indirettamente ribadito anche da ciò che accade un attimo dopo che Éowyn lo colpisce: di lui non resta nulla, se non un manto e un usbergo vuoti che “giacevano a terra informi, laceri e sparsi; e un grido si levò nell’aria vibrante, e si fece sibilo acuto, che svanì col vento, una voce senza corpo e flebile che morì, e fu inghiottita, e non fu mai più udita in quell’era del mondo”.

Il re per eccellenza resta il re a lungo atteso, Aragorn, legittimo sovrano di Gondor. Almeno tre sono le caratteristiche principali della sua regalità. La prima è la straordinaria libertà con sui sa attendere il suo momento, anche a costo di sacrifici. Aragorn antepone sempre il bene dei popoli liberi alla difesa delle sue prerogative di re che deve ristabilirsi sul trono degli antenati. Per questo, per esempio, al termine della battaglia dei Campi del Pelennor decide di non entrare nella capitale di Gondor, Minas Tirith: “Questa Città e il regno sono rimaste affidate ai Sovrintendenti per molti lunghi anni, e temo che se vi entrassi non invitato allora potrebbero sollevarsi dubbi e discussioni, cosa che non deve accadere mentre si combatte questa guerra”.

Aragorn non ha l’ossessione del potere e non è tentato dall’Anello, perché, come osserva Legolas “il suo animo è più nobile di quanto Sauron pensi”. Alla capacità di sacrificio e rinuncia si aggiunge anche un carisma senza pari, che sa guadagnargli la stima e l’affetto di chi lo circonda. Dice Éowyn: “Sei un signore austero e risoluto, e così gli uomini ottengono la fama”. E Legolas: “Tutti quelli che lo conoscono finiscono per amarlo, ognuno a modo suo”. E ancora l’elfo, raccontando della liberazione dell’Esercito dei Morti, commenta: “Persino le ombre degli Uomini obbediscono al suo volere”.

Il terzo aspetto è l’evidente carattere messianico. Aragorn è un liberatore atteso da tempo, che si rivela gradualmente anche grazie a segni soprannaturali, come la sua capacità di guarire. “Le mani del re sono mani di guaritore. E così il re legittimo potrebbe essere riconosciuto”. Usando le sue mani per rendere più efficaci le proprietà di un’erba (l’athelas, “Foglia di re”), Aragorn – come un vero re taumaturgo – è effettivamente in grado di guarire i suoi compagni nelle Case di Guarigione. Questo aspetto sacrale della regalità di Aragorn, che certo deriva dall’appartenenza al suo prestigioso lignaggio, e la sua capacità di salvare e guarire i suoi sudditi, ci rivelano una leadership vissuta con responsabilità come missione, o meglio, come vocazione al servizio. Le parole che ricordano l’antico potere regale sono pronunciate da una donna di nome Ioreth, un’anziana che per lunghi anni aveva servito nelle Case di Guarigione. Si dispera per la sorte di Faramir, trasportato nelle Case gravemente ferito, e ricorda quello che la tradizione raccontava degli antichi re di Gondor. Ed è ascoltando lei che Gandalf decide di chiedere aiuto ad Aragorn, rivelandone le doti di guaritore.

Sono parole che indirettamente richiamano il sovrano al suo dovere, lo invitano a rivelarsi con l’azione, ma allo stesso tempo attribuiscono alla sua gente il compito di riconoscere il re, di giudicarlo dai segni efficaci del suo operato. L’umile figura di Ioreth, la voce della saggezza popolare, sembra lanciarci una sfida. Noi, che non siamo sudditi, ma cittadini ed elettori chiamati a scegliere, quanto ci riteniamo in grado, oggi, di considerare le parole e l’operato della politica con sguardo realmente critico (e cioè capace di giudizio) e non ideologicamente condizionato?

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