
Il bomber della Nazionale e del Cagliari Gigi Riva (1944-2024) - (Ansa)
Nell’universo romantico degli ormai sempre più rari bracconieri di storie di cuoio ci sono tre comitati composti da nostalgici, valoriali, dalla memoria forte: i due partiti, seri e democatici, dedicati ai “Gianni”, gli scriba massimi della letteratura calcistica, i senzaBrera e i senzaMura, e l’altro che omaggia il “Gigi”, il loro maggiore epigono in campo, il partito dei senzaRiva. È passato un anno, era il 22 gennaio 2024, dall’ultimo respiro di Gigi Riva su questa terra italica sempre più avara di campioni come lui. Un simbolo nazionale, l’azzurro che ancora nessuno è riuscito a superare, in tutto e per tutto, comprese quelle 35 reti in 42 gare disputate con la maglia dell’Italia. Un uomo, una maglia, prima di tutte quella del Cagliari con cui riscattò per sempre un’Isola e la sua gente conquistando lo storico scudetto del 1970. Storie che un fine bracconiere sardo come Paolo Piras, narratore atzeniano prestato alla televisione di Stato (dirige la redazione Esteri di Rai News 24), le ha già raccontate in quel gioiello di antropologia calcistica che è Bravi& Camboni (egg). Un pezzo di Epica minore si legge nel sottotitolo in cui il monumentale Gigi Riva sgroppava veloce come un destriero anche sulla pagina, affiancato da altri protagonisti dell’epopea cagliaritana che, oltre al “Rombo di tuono” (come lo ribattezzò Gianni Brera), l’hanno scritta anche quegli illustri comprimari dai Piedi storti. In mezzo le teste matte e i colpi di genio, di piccoli eroi, altrettanto esemplari e dolci come seadas della pedata sarda, che però non si sono mai avvicinati, per classe e personalità, all’Hombre vertical (locuzione muriana) Gigi Riva.
E tutto questo Paolo Piras lo ribadisce nell’atto d’amore scritto a macchina: Il romanzo di Gigi Riva (66THAND2ND. Pagine 177. Euro 17,00) che come l’onda sulla riva del Poetto schiuma passione e sacralità verso l’eroe randagio, arrivato dal Nord, alla stregua della prova narrativa dell’altro genius loci cagliaritano Nicola Muscas che ha scritto Un amore di contrabbando (Mondadori. Pagine 248. Euro 18,50). Ci sono due momenti che segnano la via tracciata dal Campione, l’inizio, con la sua nascita e i suoi primi calci ad un pallone, e poi la sua fine, tristemente condivisa da un popolo intero. Piras e Muscas, hanno coniato un dizionario sentimentale che si incrocia e si passa la mano, anzi la palla, con generosità fraterna. Proprio come sapevano fare i compagni di quel Cagliari del “Filosofo” Manlio Scopigno schierati al servizio del loro Gigi, che un anno dopo manca sempre più. L’inizio spetta a Piras, giunto in quel paesello tra le due sponde, sulla punta del Lago Maggiore, dove sono nati e cresciuti dei fini pensatori, non con i piedi, del calibro dello scrittore Piero Chiara e il poeta Vittorio Sereni, entrambi figli di Luino. Lì ad un passo da Sangiano, dove venne al mondo il premio Nobel per la letteratura Dario Fo. Borghi che accarezzano il lago e sfiorano Leggiuno che il 7 novembre del 1944 diede i natali al Campione. Gigi, l’unico figlio maschio di una famiglia operaia con tre sorelle: Lucia, Fausta e Candida. Quest’ultima se la portò via la leucemia, a 13 anni.
Una delle tante disgrazie da dribblare, a cominciare dalla povertà. Per questo “Luigi”, come lo chiamano ancora gli amici di Leggiuno, crebbe in collegio, all’Istituto Padre Beccaro di Viggiù, dove prendevano solo i “barabitt”, i monelli, e i figli dei bisognosi. Ed è da quel disperato bisogno di emergere che nasce il talento, impareggiabile, che fece la sua prima apparizione all’ombra del campanile, nel campetto dell’oratorio di don Piero. Il parroco che in cambio «chiedeva ai piccoli atleti una militanza parallela da chierichetti – tot pallonate ai muri e ai pali dell’oratorio, tot giri di rosario e di turibolo, offertori e ampolline, una sacra partita doppia e amen», scrive devoto Piras davanti al primo tempio in cui l’esile Gigi esplose il suo sinistro in tutta la sua potenza, richiamando quelli del Laveno Mombello e poi del Legnano, fino alla discesa, a 19 anni, in quelli che allora venivano considerati gli inferi, anche del calcio, l’isolatissima Cagliarii.
Gigi Riva in Sardegna ci arrivò come “lo straniero” di Camus. Ma era introverso e di poche parole, proprio come i sardi, e si fece subito amare da quella che è diventata la sua gente. Segna 164 volte dal 1963 al ’77 fino a quando resterà in campo. E alla fine lo farà come un fenicottero di Cabras, su una gamba sola. Marchiato dalla sarditudine, per la gente di Cagliari ci aveva messo le ossa e l’anima pur di farla felice e regalargli un sogno che resterà in eterno. Come in eterno rimarranno i dolori condivisi con ognuna delle persone che ha incontrato nell’Isola e che con lui si è fermata a bere un bicchiere di Cannonau e a condividere la gioia più grande. «Per me il calcio è gioia e passione. Mi ha dato quello che, purtroppo, non ho potuto avere dalla mia infanzia, avendo perso i genitori», ricordava a cuore aperto Gigi Riva quando era in vena di confidenze.
Muscas romanza, ma è un neorealismo del millennio fuggito via quello che parla di un uomo mitizzato, ben al di là della sua volontà di essere al centro dell’attenzione. L’Hombre vertical che a Roma scende dal bus dell’Italia campione del mondo (2006) perché non ci stava a festeggiare con l’ipocrisia di quelli che salgono solo alla fine sul carro dei vincitori. Riva amava i giovani e aveva sempre un occhio di riguardo per quelli più fragili (Balotelli e Cassano non lo dimenticheranno mai). Il fascino discreto di un uomo che attraversava la città di Cagliari, da via Dante proseguendo per via Paoli, un tratto in cui Muscas lo ricorda come tutti, «elegantissimo e discreto, con quei suoi lunghi cappotti scuri, il bavero alzato a ripararsi dal vento, in questa città dove tira sempre il vento». Un maestro di vita che ha attraversato il maestrale dentro una nuvola di fumo (le amiche sigarette) con i suoi scarpini chiodati cercando di non far rumore e di non disturbare, ma in fondo felice di essere avvistato e salutato da tutta quell’umanità sarda che era la sua seconda famiglia. E c’erano tutti al funerale, alla Basilica di Bonaria (oggi sempre qui alle ore 18 la Santa Messa di commemorazione). Come quel giorno della festa-scudetto all’Amsicora, nessuno era voluto mancare all’ultima convocazione di “Rombo di Tuono”. A celebrarlo era stato l’arcivescovo di Cagliari monsignor Giuseppe Baturi che con questa frase è riuscito a trasmettere la sintesi perfetta della partita esistenziale giocata fino in fondo da Gigi Riva: «Il calcio e lo sport sono doni di Dio. Lo sport è vita, disciplina e fatica».