mercoledì 3 ottobre 2012
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La parola “ariano”, oggi. È quasi un tabù. Ma è, come molti ancor oggi e nonostante tutto san­no, sinonimo di indoeuropeo. Quello dell’aria­nesimo è stato un grande mito nato dalla cultura lin­guistica del Sette-Ottocento sul quale ricordiamo che Léon Poliakov ha scritto pagine forse invecchiate, ma che pur restano fondamentali. È chiaro che la bruta­le manipolazione ideologica nazista della parola e del concetto ha reso il cammino di chiunque voglia ri­percorrerli estremamente arduo. Tuttavia Edoardo Castagna (autore dell’esplosivo Ariani. Origine, sto­ria e redenzione di un mito che ha insanguinato il No­vecento, Medusa, pagine 108, euro 12,50) riesce a o­rientarsi nell’intrico di polemiche sulle quali si sono stratificati, magari in polemica tra loro, i pareri di lin­guisti, glottologi, archeologi, antropologi e genetisti. Fare ordine in un tale ginepraio era impresa quasi di­sperata. E, se già Poliakov lamentava al riguardo la «tirannia dei linguisti», è giusto ribattere mettendo in guardia dalla «tirannia degli archeologi». Per for­tuna, non più ormai da quella di antropologi e di bio­logi: se c’è una cosa morta e sepolta, è che quella “a­riana” sia una “razza”. Eppure non va dimenticato che il razzismo, quest’orrore che ha sconvolto il Nove­cento, non è per nulla nato da un’idea “geniale”, an­corché mostruosa, di Adolf Hitler. Macché. L’agitato­re austro-bavarese era senza dubbio abile, ma nel­l’àmbito della demagogia e della propaganda. Per il resto, le sue idee erano un pietoso banale bric-à-brac di luoghi comuni dipen­denti però – attenzione! – da fonti che per tutto l’Ottocento si erano con­siderate scientificamen­te attendibili: e non era pertanto strano che fos­sero perse sul serio. Hi­tler era il divulgatore di una scienza falsa, ma al suo tempo considerata seria ed attendibile: brandelli della quale so­pravvivono ancor oggi, magari nascosti tra le pieghe della legislazione di certi States nordame­ricani o di certi Paesi scandinavi. E allora Castagna ha buon gioco nel ribadire, limpidamente, che quel che fa un indoeuropeo non è la dolicocefalia né la glaucopsia, non i ca­pelli biondi né un certo gruppo sanguigno, ma sem­plicemente l’appartenenza a un gruppo di idiomi col­legati tra loro e sviluppatisi nel corso del II millennio a.C. fino a coprire un’immensa area macrocontinen­tale tra il subcontinente indiano, la penisola iberica e le isole britanniche. È chiaro che nel concreto svi­luppo storico delle civiltà questi idiomi hanno subì­to scambi, apporti e contaminazioni: ma non è me­no chiaro che, fondamentalmente, attraverso la strut­tura dei linguaggi indoeuropei sia possibile risalire all’universo immaginario, ai quadri mentali, alla ge­rarchizzazione dei concetti e delle immagini, insom­ma a tutto quel che qualifica basilarmente una cul­tura. Può darsi che Castagna esageri nel qualificare «screditato» Georges Dumézil oppure nel liquidare come un antiquato e confusionario passatista Gio­vanni Semerano. Ma le sue osservazioni sul rappor­to tra lingue indoeuropee e sviluppo della storia del nostro continente sono acute, intelligenti e degne di molta attenzione. Chiamare in causa le dinamiche dell’emergenza delle élites e delle funzioni di co­mando nelle culture indoeuropee per concluderne sottolineando che la caotica India è riuscita nono­stante tutto a costruirsi un sistema democratico, men­tre la Cina ne è strutturalmente lontanissima, e so­stenere che idea di progresso e volontà di potenza si colleghino con le lingue “ariane”, possono aver l’a­spetto di boutades provocatorie di stampo giornali­stico, ma non lo sono. O non sono soltanto quello.
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