martedì 18 aprile 2017
Di nobile famiglia prussiana fu naturalista, viaggiatore, esperto di geopolitica. A lui dobbiamo il concetto di ambientalismo e l'idea che la Terra sia un sistema ecologico tutto connesso.
Alexander von Humboldt

Alexander von Humboldt

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Se a Cristoforo Colombo si deve la scoperta dell’America e a Vespucci il suo nome ad Alexander von Humboldt forse la liberazione del Nuovo Mondo dal giogo coloniale. Sembra magari un’esagerazione eppure Simón Bolívar non avrebbe capeggiato la ribellione contro gli spagnoli se prima non avesse incontrato tra il 1804 e il 1805 a Parigi e a Roma il naturalista prussiano e poi letto i suoi libri, in particolare il Saggio politico sul regno della Nuova Spagna. Certo, due lustri dopo, von Humboldt non l’avrebbe più riconosciuto mentre marciava nella foresta consultando le mappe trovate nei libri del geografo e botanico berlinese. Il giovane, inguantato all’ultima moda, che passeggiava per Parigi doveva essere ben diverso dal Libertador vestito da una giubba sdrucita e sandali di juta. Se però al tempo degli incontri europei lo reputava un semplice sognatore, nel 1822, in una lettera lo riconobbe come il «fondatore della libertà e dell’indipendenza della vostra bella patria».

Ad Alexander von Humboldt, l’esploratore prussiano che ha trasformato la nostra comprensione della geografia fisica e della meteorologia e per la prima volta ha pensato la nostra Terra come un tutto connesso, Andrea Wulf dedica la biografia L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe dimenticato della scienza (Luiss university press, pp. 532, euro 22). Grazie allo stile dell’autrice le giungle tropicali, gli impervi sentieri di montagna e gli animali feroci in agguato si disegnano dinanzi agli occhi. Un po’ come Humboldt che attraverso una scrittura straordinariamente vivida dà vita per i lettori europei di allora alle «rilevazioni sulla geografia, alle piante, ai conflitti razziali e alle imprese spagnole – commenta Wulf – dando rilievo alle conseguenze ambientali del governo coloniale e alle condizioni di lavoro nelle manifatture, nelle miniere e nell’agricoltura ». Così colonialismo, schiavitù, rapacità e devastazione ecologica in cui l’esploratore si è imbattuto nelle Americhe rendevano la conquista del Nuovo Mondo esotica, certo, ma anche biasimevole.

Molti dei giovani naturalisti di allora tendevano a bearsi di un singolo viaggio passando poi anni a sedimentare le proprie esperienze senza mai rimettere di nuovo piede fuori da casa se non per ritirare premi. Von Humboldt inizia invece la sua carriera di viaggiatore più tardi rispetto agli altri. Mentre era ancora un semplice ispettore minerario, poco più che ventenne, deliziava Goethe e Friedrich Schiller durante le loro visite a Weimar incantandoli con esperimenti elettrici e la sua immaginazione. Le ambizioni di Humboldt erano però limitate inizialmente dalla scarsa disponibilità di denaro e poi dalle imprese napoleoniche.

A ostacolare i suoi piani per raggiungere le Indie c’erano in agguato le battaglie navali. E a impedirgli di visitare l’Etna e il Vesuvio la campagna d’Italia condotta dal Corso. Infine però si decise per il Sud America anche se questa suonava come una scelta obbligata. Il suo fascino e l’entusiasmo convinsero comunque re Carlo IV di Spagna a firmare i permessi che, per la prima volta, autorizzarono uno straniero a trasferirsi nella Nuova Spagna. Quando la raggiunse nell’estate del 1799, aveva appena compiuto trent’anni. Ma era solo l’inizio. Al suo ritorno a Berlino nel 1804 fantasticò di alanzitutto tre spedizioni fino all’ultima, quella che l’avrebbe portato attraverso Russia e Mongolia alle porte del Celeste Impero realizzata alla ragguardevole età di cinquantanove anni. Allora una guardia cosacca non esitò ad apostrofarlo come «il folle principe prussiano». Proprio lì, sul confine, von Humboldt avrebbe comunicato con una guardia di frontiera cinese tramite molteplici traduttori, dal tedesco al russo, dal russo al mongolo e infine dal mongolo al cinese. Ma il risultato non diede gli esiti sperati. Non ricevette il permesso di addentrarsi nelle sterminate lande della Cina.

Non fu però l’unico progetto a naufragare. Von Humboldt programmò pure una spedizione in Himalaya, per avallare le sue idee comparative circa i rapporti tra altitudine, geologia e vita vegetale e poi confrontarle con le scoperte fatte in America tropicale. Sorprendentemente però la Compagnia delle Indie Orientali era meno illuminata di quanto lo fosse il re spagnolo per consentire a Humboldt di compiere il viaggio, impedendo tutti i suoi tentativi di entrare nel Paese. Se solo gli fosse stata data la possibilità di scrivere dell’India britannica, avrebbe potuto produrre forse uno dei più grandi libri del diciannovesimo secolo infiammando magari anzitempo i sogni di un Libertador indiano ben prima del 1947. Al suo rientro definitivo in Prussia Von Humboldt attese alla preparazione del suo ultimo viaggio: la stesura del monumentale Kosmos, il trattato in cinque volumi sull’unità della scienza, finito di pubblicare nel 1862, a tre anni dalla morte. Con Kosmos, che avrebbe dovuto intitolarsi Gäa, Von Humboldt descrisse la Terra come una unità interconnessa, anticipando Gaia di James Lovelock, l’ipotesi alla base di molta ecologia contemporanea.

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