sabato 27 giugno 2015
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La vicenda di Camila Giorgi somiglia a un romanzo di formazione. La storia moderna di una costruzione tennistica. Lei è italiana, anzi, “italianissima”, come è solita rispondere quando è in buona con il nostro Paese e con i giornalisti italiani, malgrado le facciano domande in una lingua che ancora la intimidisce. Ma è anche argentina (molto), spagnola e francese (meno), e americana (un bel po’). La sua storia comincia a Macerata, dov’è nata, e prosegue verso Milano, Como, la Francia, poi la Spagna, Barcellona e Valencia, per giungere in Argentina e di lì risalire verso gli Stati Uniti. Per un po’ la famiglia mise radici a Miami, ma papà Sergio - un tipo sempre arruffato, i larghi sorrisi che nascondono un animo di ferro, da militare (nella guerra delle Falkland, non a caso) - le migrazioni le ha nel Dna. Il nonno da Macerata se ne andò in Argentina. Il padre lo seguì. Lui stesso è di Buenos Aires. Ora la famiglia è tornata in Italia, a Tirrenia, centro federale. Camila, le hanno chiesto una volta in barba a ogni ovvietà, ti piace più Tirrenia o Miami? E lei, caruccia: «Tirrenia, off course». L’insegnamento, se c’è, è questo: «Si prende il meglio di ogni esperienza vissuta». Serve a fortificarsi, spiega papà Sergio.Fra le poche, fondate speranze di vedere una bandiera italiana sventolare fino alla seconda settimana dei Championships a Wimbledon, che vanno a cominciare lunedì, Camila di esperienze forti ne ha vissute sin troppe. E non merita di essere giudicata solo per il tennis che pratica, a volte talmente esagerato, impulsivo, sbagliato, da far credere che non abbia anima, né pensieri. Quel tennis è il suo riparo, il suo sfogo. Colpire sempre più forte, con rabbia, le ha permesso di curare il vuoto di una vita segnata dall’improvvisa scomparsa della sorella, Antonella, studentessa a Parigi, un incidente stradale di pochi anni fa. «Solo due anni dopo quella tragedia – ha raccontato il padre – Camila mi chiese di portarla dove la sorella è caduta. Ma lei di Antonella non parla mai. Cura così il suo dolore».Quel tennis tutto istinto, negli anni ha assunto una veste propria, definitiva. Non impeccabile, ma decisamente personale. Un pezzetto alla volta, Camila ha messo su un gioco forgiato sui muscoli e sul carattere, mosso dalla convinzione di essere lei la sola protagonista della sua storia, lei l’unica con cui valga la pena fare i conti. Gioca per se stessa Camila, senza troppo riflettere su chi abbia di fronte. Colpisce con forza, sempre, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Una ragazzina piccola così (quanto? Appena un metro e 67, quasi niente nel tennis femminile di oggi) che sviluppa una forza distruttiva impressionante, molto anticipando i colpi, talvolta gettandosi di slancio verso la pallina. Solo a darle un’occhiata, mentre si affanna a demolire le altrui difese, salvo prodigarsi subito dopo nel riportarle a nuova vita, regalando e scialando come solo lei sa fare, e tornare da capo a slanciarsi contro di esse, felice solo di poterle sbriciolare una seconda volta, Camila ha il potere di farvi sentire insignificanti ospiti di un evento che soltanto a lei appartiene, e che non ha alcuna intenzione di condividere con chicchessia, disinteressata allo stupore del pubblico quanto ai gemiti delle avversarie. È un fenomeno naturale, la ragazza del futuro (del nostro tennis, di sicuro). Come la risacca che deforma la spiaggia prima che prenda forma uno tsunami. Se vi basta osservarla, e trasecolare di ciò che combina, non è poi così necessario che la comprendiate. È sufficiente farsene una ragione.Ma nel gioco dei contrasti, Camila offre spunti di riflessione interessanti, e paragoni altisonanti. Adriano Panatta, che la vide in campo a Macerata, durante un evento creato per i bambini (Camila aveva 7 anni), disse di aver visto la prima Agassi al femminile, e ne parlò a lungo con il padre, per convincerlo a fare tutti gli sforzi necessari. «Io la invidio», ci disse Flavia Pennetta, sospirosa e parecchio afflitta, dopo la sconfitta del gennaio scorso a Melbourne, la seconda in uno Slam contro Camila. «Colpisce senza pensare, e non pensa altro che a colpire». Dev’essere liberatorio, concluse Flavia, forse un po’ invidiosa.Ad Agassi ha continuato a ispirarsi, la giovane Camila. E molto agasseggiando ha vinto di recente il suo primo titolo, sull’erba olandese di ’s-Hertogenbosch, o Den Bosch se preferite, o Rosmalen se ricordate come la chiamavano un tempo. Di buono, in quella felice occasione, c’è che ha battuto molte ragazze di valore tennistico inferiore al suo, le stesse che in mille altre occasioni le avevano creato problemi. Camila è così, forte con le forti e debole con le deboli. Stavolta, però, ha invertito la tendenza e lo ha fatto schiumando ardore, come suo solito, ma anche trattenendosi, senza sparare colpi “alzo zero”. È la svolta? Il padre le sta accanto, «senza sapere nulla di tennis», ma pronto a motivarla, «perché quello serve maggiormente a Camila». I consigli, però, non sembrano poi campati per aria. «Mi chiede di essere solo un po’ più riflessiva», racconta Camila pescando le parole giuste nel mare della sua timidezza, «ma non di rinunciare al mio istinto». Una volta le abbiamo chiesto: sei così anche nella vita? Quando prendi una decisione, ci pensi, o la percuoti come una pallina? «Il campo è una cosa, la vita un’altra. Sì, quando prendo una decisione, ci penso...». Chissà perché, ma siamo stati felici di sentirglielo dire.
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