giovedì 24 settembre 2020
Un libro inizia dalla disperazione e affronta il tema del suicidio. Per arrivare a dire "che nella vita possono accadere cose inattese e incalcolabili, imprevedibili e insperate"
Lo psichiatra Eugenio Borgna

Lo psichiatra Eugenio Borgna - Archivio Avvenire

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Per parlarci di speranza, in questo piccolo denso libro Eugenio Borgna inizia il suo discorso dalla disperazione. Da quell’assenza in cui si può stabilire chi sia orbato da un lutto, o ammutolito dalla malattia o dalla solitudine. Borgna ci riconduce a Leopardi, al febbrile desiderio di morire che spesso percorreva le sue righe, e al dilemma cruciale del poeta: «Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più di ogni altra colpa umana…».

In Speranza e disperazione (Einaudi, pagine 120, euro 12,00), il grande e anziano psichiatra affronta apertamente quel pensiero indicibile, 'contronatura', spesso taciuto alle persone più care (e che però nel nostro tempo costituisce una frequente causa di morte fra i giovani, senza che su questo ci interroghiamo).

Dai versi di Leopardi Borgna ci proietta poi nella prosa netta e lacerante di Cesare Pavese, morto suicida a 42 anni. Ma già a 19 quel ragazzo solitario percorreva le sue Langhe con una pistola in tasca, immaginando «il sussulto tremendo» che lo sparo avrebbe, un giorno, diffuso nella campagna.

Una disperazione precoce e radicale che riaffiora in tante pagine del Diario di Pavese: «So che la vita è stupenda, ma io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio», scriveva. Una tensione alla morte coltivata e cresciuta come un figlio, o come un inesorabile destino. 18 agosto 1950, dal Diario: «La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi? Basta un po’ di coraggio».

Per tanto tempo si è relegato il suicidio nella follia – come non volendo saperne nulla, come negandone ogni senso. Ma non tutti i suicidi, dice Borgna, sono riconducibili a malattia mentale. Piuttosto a una strutturale mancanza di speranza, non conosciuta, non incontrata in famiglia, a scuola, tra gli amici. Speranza che non è da confondere con un ottimismo, che potrebbe anche essere vano. Speranza, disse Kierkegaard, è “passione del possibile”, apertura a un futuro che non conosciamo e spesso indipendente da noi. Ma speranza per Eugenio Borgna è anche un dovere verso l’altro, in una dimensione necessariamente di comunione: «Abbiamo l’obbligo morale di non lasciar morire la speranza in noi per farla rinascere in chi l’abbia perduta, e in questo senso la speranza ha un valore rivoluzionario: ci inquieta, ci libera da pregiudizi che non ci consentono di cogliere la realtà nella sua spontaneità e nella sua ricchezza umana».

Nella intuizione, aggiunge lo psichiatra, «che nella vita possono accadere cose inattese e incalcolabili, imprevedibili e insperate». Il professor Borgna ha oggi 90 anni, e questa sua audace speranza gliela si legge netta, negli occhi chiari. E meraviglia chi, di tanto più giovane, già inclina in una tristezza che attribuisce all’età. No, non è questione di età. Sembra una fiaccola, la speranza dei vecchi buoni, mantenuta con cura e alimentata per gli altri. Soprattutto quando come in questo caso chi scrive è un medico, e medico di depressi, ossessivi, psicotici. Uomini e donne che devono trovare in chi li ascolta, nelle sue parole o nel suo sguardo, qualcosa che contraddica il desiderio di morte.

Borgna, per decenni direttore del reparto femminile del manicomio di Novara, per tutta la vita ha ascoltato questo plumbeo desiderio e ha cercato di arginarlo e contraddirlo, dando all’altro una ragione per sperare. E non lo abbiamo forse anche noi, questo dovere verso i nostri cari, e i nostri figli, cresciuti in mondi dimentichi della speranza cristiana? Lo psichiatra si chiede, in un passo estremamente attuale, se chi insegna non debba sentirsi responsabile della presenza o della assenza di speranza fra i propri allievi: «Una scuola, nella quale chi insegna crea una climax impregnata di speranza, non saprebbe forse ridestare anche negli allievi timidi o insicuri risorse emozionali altrimenti perdute nell’angoscia e nelle tristezza?». Risorse che attingano alla memoria di affetti e eredità ricevuti, nella promessa di un bene che sia ancora possibile vivere. Perché la speranza, e qui Borgna cita Gabriel Marcel, «è la memoria del futuro».

E la memoria può essere serbatoio di speranza: come nell’Antico Testamento gli Ebrei ricordavano la liberazione dall’Egitto, per rinnovare la loro fiducia in Dio. Il piccolo denso libro si conclude con due folgoranti righe di Kafka: «L’uomo non può vivere senza una perenne fiducia in qualcosa di indistruttibile in sé, la qual cosa non esclude che, sia tale fiducia, che quell’elemento indistruttibile, possano restare perennemente nascosti…». Come un’ancestrale certezza di portare addosso un’impronta incancellabile, per sempre. Forse anche questa istintiva coscienza, che magari inconsapevole cova nel fondo di molti di noi, potrebbe essere chiamata “speranza”.




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