mercoledì 15 novembre 2023
La riflessione del cardinale Zuppi sulla scorta del filosofo Martin Buber, secondo il quale la relazione tra le persone costituisce il centro dell’esistenza umana. E la arricchisce
Il cardinale Matteo Maria Zuppi

Il cardinale Matteo Maria Zuppi - Ansa

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Anticipiamo il brano “Bibbia e strada, due vie per un amore”, tratto dal primo capitolo del libro del cardinale Matteo Maria Zuppi Dio non ci lascia soli. Riflessioni di un cristiano in un mondo in crisi, in uscita oggi per Piemme (a cura di Mario Marazziti, pagine 256, euro 18,90). Nel volume, nato da uno sguardo affettuoso per un presente complicato, il cardinale Zuppi, con uno stile diretto, grande cultura teologica e storica, finezza umana – che si traduce sempre in una capacità di prendere sul serio le domande degli altri – offre le sue riflessioni per affrontare quella che lui stesso definisce la «pandemia dell’infelicità» del nostro tempo. Pagine piene di speranza che si rivolgono a tutti – credenti, credenti a modo proprio, scettici, non credenti – e disegnano un cammino oltre la violenza, l’aggressività, la solitudine, verso un futuro migliore, un futuro di pace. Nato nel 1955 a Roma, Zuppi dal 2015 è arcivescovo di Bologna, dal 2019 cardinale, e dal 2022 presidente della Cei. Nel maggio 2023 papa Francesco lo ha incaricato di una missione per cercare di favorire soluzioni di pace per l’Ucraina.

Il discepolo di Gesù è interessato al prossimo e ne è vulnerabile. Il prossimo non è una categoria morale, ma concreta, affettiva: sono le persone, gli altri, la folla che nel Vangelo accompagna sempre Gesù. Ognuno di noi è frutto di tanti incontri. Non sarei quello che sono senza l’incontro all’inizio del liceo, poco più che adolescente, con quella che sarebbe diventata la Comunità di Sant’Egidio, e con quel Vangelo dell’amicizia intriso di voglia di cambiare il mondo senza violenza, assumendosi gli uni i pesi degli altri, quelli dei poveri come se fossero i nostri, i miei.

Qualche volta pensiamo che il Vangelo ci chieda una vita grama, giusta magari, ma compressa da troppi limiti, da quelli che alcuni giudicano sacrifici inutili e che altri considerano giusti, ma sempre un po’ come un dovere. Gli altri non sono un dovere e non sono una limitazione, sono una ricchezza per la nostra vita. Tutto il Vangelo parla di amore e quindi di vita. Gesù non parla di un “altro” mondo, lontano dalla realtà, di una vita per pochi eletti dotati di particolari virtù, impossibili ai più. La vita del Vangelo la comprendono i peccatori, i poveri, quelli che la vita l’hanno perduta e quelli che la cercano, che vengono da lontano, che hanno sbagliato tutto e non ne possono più, i malati che la agognano e ne capiscono il valore e sanno che tutto è come un soffio.

Il valore del Vangelo lo comprende l’uomo mezzo morto, cui i banditi di ogni tempo rubano metà della vita e che perderebbe anche l’altra metà se non ci fosse un samaritano che si ferma perché ha misericordia. L’indifferenza è il vero nemico della vita, non gli altri. La vita del Vangelo sembra dura quando si cerca, con poco successo, di salvarsi da soli. La verità più profonda di Gesù, vero segreto della vita, è che solo se cade in terra il chicco di grano può dare frutto e non resta solo. Da soli non c’è vita. Ma questa non è una vita grama, è una vita che dà frutti, in cui tutti possiamo diventare madri e padri, e trovare un’esistenza più ampia.

Realizzare se stessi comprende sempre anche gli altri. Una buona guida è Martin Buber, che afferma che «l’io costituisce se stesso nel tu». Per lui la relazione tra persona e persona è il centro dell’esistenza umana, «qualcosa che non ha l’eguale nella natura» (Il problema dell’uomo, Marietti, 2004). Il centro è l’incontro. In cui l’io non si appiattisce nell’altro e l’altro non è solo annullato dal nostro io. Anzi: trovo l’io trovando Dio e il noi, capendo che la domanda di fondo della vita «per chi, a che scopo?», come sempre scriveva Buber ha solo una risposta: «Non per me».

Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. «Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!». E se avviene questo troviamo finalmente l’io e non le infinite interpretazioni che lo nutrono e lo ingannano. Non ci siamo neppure noi senza dialogo e senza incontro. Quando incontriamo qualcuno dopo un tratto di strada, sappiamo quello che noi abbiamo già affrontato, e non il percorso dell’altro. Siamo interessanti per gli altri anche per questo, e le nostre strade acquistano ricchezza e futuro. L’amore ci precede, è realtà “ontologica”.

L’amore, con Gesù, è entrato nella storia. C’è un superamento di una idea circolare della storia, ciclica, che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale. E che fornisce il quadro concettuale, e anche spirituale e personale, per non credere che il cambia-mento sia possibile, che le strutture di solitudine o di ingiustizia possano essere cambiate e che, in questo, il contributo di ognuno è importante. In un’idea ciclica e ricorrente della storia perde di significato la persona, quello che possiamo fare noi. La grande buona notizia è che Dio, con Gesù, è entrato e rimane nella storia, quella che contiene anche la nostra miseria, le contraddizioni e le ferite del mondo, e questo è davvero Vangelo.

Il Vangelo non ci chiede di annullare la nostra storia o di rendere quella che viviamo uno scenario sempre uguale, ma è nella nostra storia che comprendiamo meglio anche il Vangelo. Si tratta di entrare nella storia per capire il Vangelo, non di uscirne! Altrimenti ridurremmo il Vangelo a benessere individuale e resteremmo individui, senza quel noi che è indispensabile per trovare e vivere l’amore. Se si riduce il Vangelo a fatto intimistico e privato, alla fine, non si trova né se stessi, né Dio, né il prossimo.

La Parola di Dio più la si frequenta e più la si capisce e si scopre ogni volta come nuova. Se proviamo a farlo, ci accorgiamo che è vero. E ci aiuterà anche a crescere e trovare noi stessi. Uno dei mantra dell’individualismo che marca tanto del pensiero corrente – e dominante - , pieno di luoghi comuni che immiseriscono chi li ripete e chi li subisce, afferma: «Per stare bene devi pensare di più a te». «Ti devi realizzare». Non è certo questo il linguaggio della Parola di Dio. Realizzare se stessi non può mai essere contro gli altri o indipendentemente dagli altri. È un’idea perdente e “fondamentalista” dell’individuo, una caricatura della vita, pensare che tutto dipenda dal fatto di mettersi al centro.

A volte proprio questo è il ritornello in famiglia, sul lavoro, nei consigli di buon senso delle rubriche popolari dei settimanali quando invitano a dedicarsi agli altri ma sempre “con misura”, senza esagerare, per evitare i burnout, per non scoppiare. È fondamentalista perché è deformante. Sono gli altri che ci aiutano a ritrovare noi stessi: nell’interesse per un altro ritrovo il meglio di me. È fondamentalista perché è come chi isola alcune righe di un testo sacro e cristallizza lì dentro l’intero messaggio religioso. L’amore non è mai mediocre, e supera i limiti con la sua forza straordinaria. Certo: è necessario avere attenzione verso se stessi, non buttarsi via, ognuno deve capire quando è il tempo per la propria solitudine o per il suo spazio personale, che è anche il tempo della coscienza di sé e della responsabilità. Pensandoci anche per gli altri, però, non solo per noi stessi, o la nostra vita appassisce.

La Parola di Dio è in realtà un antidoto al fondamentalismo, anche ai fondamentalismi laici. Dentro ci sono tutte le debolezze umane: violenza, ingiustizia, ma anche la salvezza, l’incontro con l’amore appassionato di Dio che entra nella storia e la cambia. C’è una comprensione progressiva di quello che conta nella vita, fino alla pienezza, fino a Gesù. E, se la leggiamo, ci aiuta a crescere, a comprendere il senso e a conoscere il “per chi” sei e “per chi” cammini. Più liberi dal conformismo del pensiero corrente.

(© 2023 Mondadori Libri S.p.A. per il marchio Piemme. Per gentile concessione di Mondadori Libri S.p.A.)

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