giovedì 26 luglio 2012
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​Tante sono le stelle, grandi e piccole, dello sport, che stanno per illuminare il cielo olimpico di Londra. Altrettante sono state le stelle che in un secolo e più di Olimpiadi moderne sono rimaste a guardare, escluse dal firmamento, perché vittime di discriminazioni o quelle risarcite con lente e progressive «inclusioni». È una squadra al margine di tutti i villaggi olimpici quella che per il sociologo Mauro Valeri - attento studioso di tutte le forme di discriminazione e autore dell’imprescindibile Stare ai Giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni (Odradek) - meriterebbe di essere riconosciuta sotto l’egida del «sesto cerchio». Il cerchio supplementare ai classici cinque di Olimpia, per «ricordare a tutti noi – scrive Valeri – l’importanza di garantire e di rendere effettivo il diritto allo sport per tutti». Un diritto negato fin dalle origini alle donne che nell’antica Grecia potevano soltanto iscriversi, ma non assistere, alle competizioni equestri in qualità di proprietarie, allenatrici e allevatrici di cavalli. Lo status di “atleta-donna” non era riconosciuto neppure dall’ideatore delle Olimpiadi moderne, il barone De Coubertin, il quale accettando solo l’accezione virile dell’«atleta soldato» e fedele alla tradizione classica, ai Giochi di Atene 1896 escluse tassativamente la partecipazione delle donne. È dunque da considerarsi come il primo atto di dissidenza olimpica, quello della maratoneta greca Stamata Revithi, «prima atleta mamma» dell’era moderna (aveva un bambino di un anno), alla quale a quei Giochi ateniesi venne impedito di gareggiare con gli uomini e così decise di correre lo stesso la maratona, ma il giorno dopo quella ufficiale. Stamata tagliò il traguardo in 5 ore, due in più di quelle del vincitore, ma il suo gesto esemplare, aveva aperto la strada alle donne per le successive Olimpiadi di Parigi. Anno 1900: 22 le atlete in gara sotto la Torre Eiffel (appena l’1,5% dei partecipanti) e il primo titolo olimpico andò alla tennista Charlotte Cooper, l’eroina del Regno Unito che nel 1913 si aggiudicò la sua seconda “insalatiera” sull’erba di Wimbledon stabilendo un record finora insuperato: la “racchetta” più longeva con i suoi 37 anni e 282 giorni ad aver vinto il prestigioso torneo londinese. Cento anni fa alla prima edizione dei Giochi di Londra, le donne partecipanti salirono a 44, il 2,2%. A Londra 2012 rappresentano il 43,3% dei 10.500 atleti in gara. Per la prima volta nella storia c’è una donna in ognuna delle 204 delegazioni e addirittura quella degli Stati Uniti sarà formata per la maggior parte da donne, 269 contro 261 uomini. Le donne del calcio aprono i Giochi e la boxe femminile arriva sul ring olimpico. Dunque la sfida in rosa per la parità, pur se ancora in salita, almeno nello sport è a buon punto, mentre la discriminazione razziale, letto anche il twitter xenofobo di ieri della 23enne greca del salto in lungo Voula Paraskevi Papachristou («Con così tanti africani in Grecia, le nostre zanzare del Nilo potranno mangiare cibo fatto in casa», è stata espulsa dalla squadra), pare non avere mai fine. Il razzismo per il colore della pelle, l’odio e la paura del diverso, il «nero», ha creato imbarazzo fin da Atene 1896. Gli atleti di colore vennero marchiati come «selvaggi» o «dominati dall’istinto» per poter rispettare le regole sportive. Fino a Parigi le teorie razziste non solo attecchirono, ma impedirono agli atleti di colore di prendere parte alle competizioni. Poi come una meteora il rugbysta francese di origine haitiana, Henriquez de Zubiera, si gettò nella mischia, rivendicando il sacrosanto diritto a partecipare ai Giochi. Il suo fu il primo titolo olimpico per un atleta di colore, ma venne subito insabbiato da De Coubertin per il quale «il vero sport è solo quello che ha come artefice l’individuo maschio adulto», mentre de Zubiera si era concesso il lusso di trionfare con tutta la nazionale di Francia. Il “Barone” avrà sicuramente misconosciuto anche George Poage, primo afroamericano a gareggiare per l’Università del Wisconsin, che arrivò due volte terzo, nei 200 e nei 400, alle Olimpiadi di Saint Louis, nel 1904. Precursore Poage, del fratello nero Eddie Tolan, detto anche “Midnight Express” - a sua volta antesignano del “Figlio del vento” Carl Lewis (4 ori olimpici a Los Angeles 1984) - che strabiliò per i suoi primati del mondo sulle 100 yard, ma soprattutto si fece conoscere perché sulla pista di Los Angeles 1932 sfrecciava con degli occhialini singolari, fissati alle tempie con il nastro adesivo. Un’immagine modernissima che rimanda alla stella del basket Nba Kareem Abdul Jabbar che appena 21enne alla vigilia di Città del Messico 1968 era tra coloro che voleva boicottare i Giochi. Jabbar rivendicava la discriminazione dei neri nel proprio Paese, a cominciare da quella subita dai grandi colored dello sport come il leggendario Jesse Owens, medaglia d’oro nei 100 a Berlino ’36, applaudito persino da Hitler e poi segregato a cittadino di “serie B” al suo ritorno negli Stati Uniti. «Noi neri eravamo americani solo quando c’era da vincere medaglie, poi tornavamo a essere cittadini senza diritti», dice amaro Jabbar. In difesa dei pari diritti, sul podio di Città del Messico Tommie Smith e John Carlos (primo con tanto di record del mondo e terzo nei 200) si presentarono senza scarpe, calze nere e il pugno levato in alto, coperto da un guanto nero. Di quel gesto e di quella giornata epocale, Smith recentemente ha ricordato: «Tornando a casa da Città del Messico trovai mio padre ad aspettarmi. Lavorava nei campi, sfruttato da una vita. Parlava pochissimo. Mi allungò la mano e mi disse: so perché l’hai fatto. E sono orgoglioso di te...». Intanto oggi, in un tempo di razzismo dilagante negli stadi, l’Africa pur avendo un terzo delle nazioni affiliate al Cio, può contare solo su 8 degli 80 membri dell’Assemblea. Tanto resta ancora da fare per abbattere i muri della discriminazione razziale e religiosa («peggio ancora quando si viene colpiti per entrambe», sottolinea Valeri) nello sport. E le “protesi al carbonio” di Oscar Pistorius, primo biamputato paralimpico ammesso a dei Giochi per normodotati, servono a far capire che lo sport è davvero un diritto di tutti, ma soprattutto a scuotere le coscienze di chi nel Terzo Millennio pensa che sia normale vivere nel pregiudizio e in città ancora accerchiate dalle incivili e inammissibili barriere architettoniche.
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