lunedì 7 dicembre 2015
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Raccolte in un volume le cartoline che il sacerdote dei "mutilatini" inviò tra il 1941 e il 1943 al giovanissimo Giorgio Buccellati, oggi studioso di fama Un piccolo mannello tra cartoline e lettere – inedite – che va ad aggiungersi alla raccolta mondadoriana "Dio è tutto qui." Dodici frammenti di un’amicizia singolare. Quella tra un sacerdote educatore e imprenditore della carità, il beato don Carlo Gnocchi, e un bambino, Giorgio Buccellati, oggi archeologo di fama internazionale, professore emerito negli Usa, lo scopritore di Urkesh, la capitale degli hurriti, in Siria. Don Carlo conosce Giorgio quando quest’ultimo non ha nemmeno cinque anni: amico della famiglia Buccellati, direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga (dove quattro fratelli di Giorgio frequentavano le medie e il liceo), avvia una corrispondenza epistolare con il piccolo in anni cruciali, dal ’41 al ’43. Quando don Carlo si arruola come volontario tra gli alpini della Tridentina nelle campagne di Albania e Russia e quando il piccolo Giorgio, iniziata la prima elementare deve sfollare in montagna. E tuttavia, anche se questi testi ci riportano al periodo della Seconda guerra mondiale, tanto riescono a impregnare di dimensione spirituale e pedagogica un rapporto, segnato dalla nostalgia di un incontro, dall’attesa di un reciproco sguardo, che subito passano in secondo piano distanze, contesti, tempi, età, preconcetti, mentre si avverte nelle pagine un senso di calore, rispetto, condivisione. Tutto quello che poi ha continuato a dare l’autore di questi messaggi, le cui spoglie riposano in un santuario milanese – ora chiesa giubilare dalla Diocesi ambrosiana – accanto alla sua Fondazione. Un prete che Giorgio Buccellati non ha dimenticato nel pieno vigore delle sue forze , quando lo «prendeva in braccio e buttava in aria verso un grosso orologio appeso al soffitto nel grande ingresso dell’istituto Gonzaga » con suo «vivo terrore», come scrive aprendo con i suoi ricordi la lettura di questi messaggi. Messaggi vergati con una calligrafia nitida ora raccolti sotto il titolo Caro Giorgio, tuo don Carlo, a cura di Giovanni Santambrogio (Interlinea, pagine 86, euro 12). Dopo le prime due cartoline dal fronte greco-albanese, l’8 e il 15 giugno ’41 (la prima con la richiesta a Giorgino di mandare «parole di conforto» all’«alpino più piccolo del battaglione», la seconda con l’invito a Giorgio, reduce da un piccolo intervento, ad offrire per lui e i suoi alpini '«il dolore dell’operazione e le noie che la seguono») e dopo una manciata di righe dal treno il 18 luglio ’42, richiama l’attenzione l’unica cartolina postale dal fronte russo. È datata 11 agosto 1942 e contiene un riferimento al «crocifisso da campo», dono della madre, quando scrive a Giorgio che gli alpini quando lo baciano, venerano anche sua mamma e aggiunge, con un’espressione che pare indirizzata più a se stesso che a un bambino: «né questo mi pare irriverente». Se certamente colpisce la fotografia regalata a Giorgio con la didascalia «Don Gnocchi mentre esce dal suo rifugio a Dolshik, in Russia, nel novembre del 1942», evocante la successiva disastrosa ritirata da fronte russo tra il gennaio e marzo ’43 (quando il cappellano, stremato si salvò dalla morte per congelamento tornando in Italia nel marzo ’43 e riprendendo a lavorare al Gonzaga e, dopo l’8 settembre, rifiutandosi di aderire alla Repubblica Sociale Italiana con quel che ne seguì), fa tenerezza l’unica letterina di Giorgio a don Carlo qui riportata. È del 1° maggio ’43 e vi si leggono frasi come «Io ti ricordo sempre, e ho paura che tu riparti un’altra volta senza vedermi», «La Mamma mi ha dato un pezzettino di terra per coltivare i fiori e allora io ne metterò tanti e li raccoglierò per mettere sul mio altarino. Se vieni vedrai come è bello». In partenza per Merano per riprendere servizio con i suoi alpini don Gnocchi così rivolge al piccolo amico: «Non puoi credere quanto questo mi dispiaccia! Non mi par vero di partire senza aver visto il mio caro Giorgio, avergli fatto un bacione per ringraziarlo delle sue preghiere che mi hanno salvato dalle mani dei russi e aver ammirato il suo giardino di fiori. Offriamo al Signore questo sacrificio, che fa parte di tutti i sacrifici e le difficoltà della guerra, perché venga presto la pace». Ma la pace non arriva. Ed è una cartolina dai toni scherzosi, datata 15 dicembre ’43, che chiude questo epistolario. Forse necessariamente, per più d’un motivo: l’occupazione tedesca, i viaggi di don Gnocchi oltralpe in Svizzera per assistere i rifugiati antifascisti italiani, le preoccupazioni in casa Buccellati per fratelli di Giorgio ( Luca con i “repubblichini” a Gardone, Lorenzo nascosto con i partigiani in montagna, Federico internato a Dachau, Gianmaria in collegio dai Fratelli del Gonzaga). A ragione Santambrogio osserva nella postfazione che «carattere, dolcezza, attenzione, sensibilità e tanto altro ancora di don Gnocchi si capiscono leggendo le sue lettere»: là «il suo pensiero viaggia con il cuore». Ecco perché capita di venirne «attratti al punto da immedesimarsi avvertendo quelle missive indirizzate a noi». A scriverle del resto un prete che cercava il Risorto nella carne dei sofferenti. E che nella Milano liberata, l’8 dicembre di settant’anni fa accoglieva il primo di una serie di “mutilatini”, ponendo le basi per l’Opera della sua vita: spesa al servizio dei più fragili, dei denudati dal dolore.
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