giovedì 14 marzo 2019
Il fondatore della Casa della Carità si racconta in un libro-dialogo con suor Chiara Francesca Lacchini ed Enrico Finzi: «La spiritualità della carità è una tensione fondamentale»
Don Virginio Colmegna (Siciliani)

Don Virginio Colmegna (Siciliani)

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In mezzo secolo di sacerdozio don Virginio Colmegna, prete ambrosiano delle periferie urbane ed esistenziali, ha avuto una varietà di compagni di strada, molti ai margini, con i quali ha stretto forti legami. Dai detenuti agli ex terroristi, dai malati psichici ai tossicodipendenti in cerca di vie di uscita, dai bambini soli ai senza dimora, dai rom ai profughi. I suoi 50 anni da "prete di comunità" sono ripercorsi nel volume Una vocazione controcorrente. Dialogo sulla spiritualità e sulla dignità degli ultimi (Il Saggiatore, pagine 172, euro 18,00) con una monaca clarissa cappuccina - suor Chiara Francesca Lacchini - e un intellettuale ebreo non credente - il noto ricercatore sociale Enrico Finzi. La postfazione è stata scritta da don Damiano Modena, segretario e assistente negli ultimi tre anni di vita del cardinale Carlo Maria Martini. Don Virginio è stato parroco a Sesto San Giovanni negli anni 80, direttore della Caritas Ambrosiana fino al 2004 e poi presidente della Casa della Carità, il lascito sociale e culturale di Carlo Maria Martini alla grande città.

Un libro che nasce da un incontro con persone quasi agli antipodi. Perché?

«Perché il cardinale Martini nella Cattedra dei non credenti ci ha chiesto di dialogare con tutti i cercatori di senso. E questo, a differenza di chi lo vede come un periodo buio, è un tempo in cui la domanda di senso è molto elevata. Enrico Finzi è un amico laico ed è per definizione un ricercatore che da anni aiuta la Casa della Carità e segue attivamente l’associazione degli Amici. Inoltre cercavo la radice mistica e contemplativa dell’operosità del vivere, quella indicata da Martini nella sua prima lettera pastorale del 1981. Anni fa ho incontrato una monaca di clausura, suor Chiara Francesca, cappuccina che vive quella spiritualità francescana che ha segnato la mia vita come gli esercizi spirituali a La Verna. Abbiamo dialogato con lei ed Enrico , poi le parole chiave sono state rilette da ognuno in base alla propria esperienza».

Cos’è la spiritualità della carità?

«Una tensione fondamentale. Semplifico: i media sollecitano solo l’operosità del fare, ti chiedono che opinione hai su questa o quella scelta politica con una lettura vertenziale. Questa è l’immagine che rischia di passare, quella della Chiesa come Ong, come dice il Papa. Invece la scelta appassionata per gli ultimi, fatta anche da papa Francesco, nasce dal cuore del Vangelo e ha bisogno di essere custodita nella preghiera, nella riflessione, nella contemplazione e per me nella gioia di essere prete».

Che prete è stato?

«Mi definisco un prete di comunità. Ho sempre vissuto così da Sesto con la dimensione solidale dell’ospedale psichiatrico, poi in Caritas e da 15 anni in Casa della Carità. La vita della comunità legata alla famigliarità, allo stare a tavola iniseme con quelli che si dicono i impropriamente fragili e vulnerabili è stata un grande dono e mi ha dato la voglia di fare il prete. La dignità dei poveri me l’hanno invece insegnata mio padre e mia madre fin dall’infanzia. La mia esperienza sacerdotale nasce nelle periferie operaie milanesi nel clima del Sessantotto, passa attraverso i periodi bui del terrorismo e della droga e plana in questa situazione che definirei di tante oasi in un deserto che vanno riconnesse».

Che ruolo ha giocato nella sua vita sacerdotale il cardinale Martini?

«È dentro a tutte le esperienze, mi ha ridato il gusto di fare il prete. Non a caso l’ultima tappa del libro è stata il passaggio in Puglia dall’amico don Damiano per riscoprire l’ultima fase della vita di Martini, quella della tenerezza sofferente. Ed è nato un grande dialogo. Al cardinale sono debitore. Ricordo la messa del quarantesimo di sacerdozio concelebrata con lui a Gallarate con lui sofferente. L’ultimo colloquio lo feci con lui insieme a Giovanni Bianchi».

Che lezione le ha lasciato?

«Che il rapporto con i poveri ti mette addosso prima di tutto inquietudine. È una ricerca e non un catechismo».

Nel libro ricorre spesso il legame tra quello che diceva Martini e il magistero di papa Bergoglio.

«È una continuità che mi ha stupito, opera dello Spirito Santo. C’è una sintonia profonda nella lettura dei fenomeni contemporanei. Nel libro cito alcuni interventi come quello di Martini sulla corruzione che sono attualissimi. L’impostazione è comune, quella gesuita, i temperamenti diversi. Ma in entrambi è innegabile una grande capacità di comunicazione, il gusto della Parola di Dio e della preghiera che entra e si fa storia e si fa legame. È una evangelizzazione per attrazione come la chiama il Papa ma che ho ritrovato nella lettera pastorale Farsi prossimo, nell’icona delle querce di Mamre, quella dell’ospitalità come valore. Per entrambi la missione della Chiesa è far scoprire le radici in un tempo in cui contano l’apparenza e la comunicazione istantanea, far caprie che c’è bisogno di grande ripensamento e di silenzio».

Uno dei capitoli è dedicato all’obiezione. Cos’è oggi?

«Nella esortazione apostolica Gaudete ed exsultate il Papa parla di andare controcorrente. Vuol dire acquisire la consapevolezza di essere parte di una minoranza che attraversa la cultura identitaria, cito la lettera di Diogneto sul cristiano che non ha appartenenze in terra. Siamo obiettori rispetto alle diseguaglianze, a questo sistema che produce scarti, guerre, armi e divisione. Occorre scarnificare l’idea e portarla nello stile di vita personale. L’obiezione oggi è tenerezza, misericordia contro la violenza verbale crescente, quella del rancore come quella di chi lo contrasta. Obiettare vuol dire avere radici spirituali. Ero direttore della Caritas ai tempi degli obiettori al sevizio militare. C’è un tessuto di non violenza che è fondamentale in Italia. Sono gli artigiani della pace. La non violenza non è rassegnazione, ma capacità di contrastare con la mitezza una società sedotta dalla violenza. L’evangelico porgi l’altra guancia richiede una forza enorme. Esser obiettori oggi significa avere il coraggio di dire parole che sembrano destinate agli archivi della memoria, secondo me invece cariche di futuro».

Chi è il prossimo da aiutare?

«Non è solo il vicino. Aiutare chi ti è vicino è il punto di partenza, ma dentro di te questo ti dona il segno che porta ad abbracciare l’universo. Ti spacca il cuore per farci entrare il mondo e superare le barriere. Ama il prossimo tuo come te stesso significa rimettersi in gioco ogni volta che incontri qualcuno che ha bisogno. La dinamica biblica è quelle del cammino, dell’esodo. Il tema dello straniero e della vedova è patrimonio culturale già nell’Antico Testamento. Selezionare il prossimo in base a nazionalità e colore della pelle spiritualmente e teologicamente non ha spazi nel Vangelo».

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