giovedì 7 luglio 2011
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Il primo ciak non si scorda mai. Figuriamoci a Brescello dove, 60 anni fa, cominciarono le riprese di Don Camillo. La troupe guidata dal regista Julién Duvivier invase il paesino della Bassa reggiana il 7 settembre del 1951 per restarci un mese. Cominciò così una "piccola rivoluzione" che ha portato nella leggenda il piccolo borgo di contadini e barcaioli sulle rive del Po.La pellicola fu, inaspettatamente, campione d’incassi nel 1952 con oltre un miliardo e mezzo di lire, un successo che spinse Peppino Amato e Angelo Rizzoli a investire denaro per altri cinque lungometraggi tratti anch’essi dai romanzi di Giovannino Guareschi (l’ultimo rimase incompiuto per la morte di Fernandel). Tutti i film della serie vennero girati qui. Caso unico nella storia del cinema nostrano (e forse mondiale). Un ciak ripetuto, insomma, per 14 anni. E c’è ancora, in paese, chi se lo ricorda bene, quel rumore secco dell’asticella sulla lavagnetta, che segnò l’inizio di una straordinaria saga di celluloide. Tra i testimoni dell’evento, Vittorio Gianelli, da mezzo secolo sagrestano a Santa Maria Nascente, la parrocchia di don Camillo. Allora aveva 16 anni e faceva il campanaro. Lo incontro in chiesa mentre rimprovera un gruppo di visitatori che davanti al Crocifisso "parlante" (ora sistemato in una cappella laterale) schiamazzano, dimenticando di trovarsi in un luogo sacro. A 76 anni, Gianelli ha ancora lo spirito di un giovanotto. «Sa, quando si serve Dio c’è sempre molto da fare» dice, mentre mi accompagna in sagrestia. «Ecco, vede, qui Fernandel si metteva l’abito talare e non se lo toglieva mai per tutta la giornata, fino a quando non terminavano le riprese» racconta. L’attore francese era rispettosissimo anche del vero parroco, don Sante Manfredini che, ricorda il sagrestano, chiamava «mon compar», regalandogli a ogni incontro uno dei suoi irresistibili sorrisi equini. Lo scrutava con attenzione, forse per "rubargli" certi "segreti del mestiere" da usare poi sul set.E lei, Gianelli, partecipò a quel film? «Sì, come mezza Brescello anch’io feci la comparsa perché si prendevano 1.000 lire al giorno, 1.500 se si lavorava di notte. Io suonavo le campane quando mi davano il segnale e portavo messaggi correndo su e giù per il paese». Perchè allora non c’erano mica i telefonini… La mente di Gianelli è ancora piena di ricordi: «Ha presente la scena della processione del Crocifisso per la benedizione del fiume? Fu girata una ventina di volte perché il cane che doveva seguire don Camillo per le vie deserte del paese non ne voleva sapere. Stava lì senza muovere un passo». E allora? «Al regista venne l’idea di nascondere sotto la tonaca di Fernandel una sfilza di salamini… E finalmente il cagnolino gli andò dietro!». E Gino Cervi che tipo era? «Simpaticissimo, uno di noi, emiliano verace! Voleva fare lui la parte del pretone e ci rimase male quando seppe che avrebbe dovuto sostituire Guareschi nel ruolo di Peppone, ritenuto secondario». Lo scrittore di Roncole Verdi, infatti, non ebbe una bella esperienza come attore. E lo riconobbe lui stesso: «Siccome Duvivier non voleva perdere tempo, visto che Cervi era impegnato altrove, ritennero che l’unica persona adatta a coprire quel ruolo fossi io: accettai la folle proposta e girai alcune scene. Una con Franco Interlenghi al quale io sono molto riconoscente perché non solo non mi picchiò ma neppure mi insultò… Fu, insomma, una delle pagine più oscure della mia vita. Per fortuna Cervi arrivò a Brescello prima che io potessi assassinare altre scene».Ma chi avrebbe voluto, Guareschi, come interpreti dei due personaggi da lui inventati? In una lettera dell’agosto 1951 ad Angelo Rizzoli, scriveva: «Lei è, circa il Don Camillo, sempre stato d’accordo con me. Lei stesso mi ha sempre detto che erano necessari due interpreti nuovi che non ricordassero nessun altro personaggio (…). Dovunque io vada trovo gente che si stupisce con me e, talvolta addirittura si indigna per il fatto che a sostenere il ruolo di don Camillo sia stato scelto Fernandel, il quale sarà bravissimo ma ha una faccia da cavallo. E la stessa gente, a proposito di Gino Cervi nella parte del comunista Peppone, osserva che non si sarebbe mai immaginato un Peppone così bellino e rotondetto». Ma l’autore del "Mondo piccolo", anche stavolta, si sbagliò. Come ammise, con la sua solita schiettezza, alcuni anni dopo: «Se dicessi che Fernandel è il don Camillo che vedo io, direi una bugia. Però è tanto bravo che alla fine cambierò idea e forse un bel giorno, quando penserò a don Camillo, vedrò la faccia e i denti di Fernandel». Così, infatti, è diventato per tutti. Ermanno Zanichelli aveva 20 anni quando a Brescello si girava il primo film. «Pensi che a quell’età non avevo ancora visto il mare… Qui parlavamo tutti solo in dialetto e l’arrivo del cinema è stata una rivoluzione: chi affittava stanze ai tecnici e al personale della casa produttrice (gli attori e il regista andavano a dormire a Parma), chi metteva a disposizione l’orto o il capanno per custodire le attrezzature; giovani e anziani facevano la fila davanti all’ufficio che la Amati-Rizzoli aveva aperto sotto i portici della piazza per reclutare le comparse. Un nostro concittadino, Spartaco Pellicciani, diventò il factotum del dottor Cocco, l’uomo di fiducia del commendator Rizzoli: a lui bisognava ricorrere per qualsiasi necessità». Duvivier? «Era un pignolo, faceva lavorare la troupe soprattutto tra mezzogiorno e l’una, quando il sole picchiava più forte, per avere più luce». E Fernandel? «Me lo ricordo ancora, tutti i giorni, alla fine delle riprese, andava al bar per farsi un bicchierino di Pernoud, poi saliva insieme alla segretaria sulla sua macchina americana, con tanto di autista in livrea, e se ne andava in albergo».
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