sabato 5 aprile 2014
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Abbiamo raggiunto l’apice del paradosso: chiudiamo la Borsa e lasciamo aperte le porte delle chiese. I pagani erano più coerenti: chiudevano il Tempio della Pace quando sguainavano la spada. Noi abbiamo rapidamente trasformato i templi della pace in templi della guerra».Lo scrittore irlandese George Bernard Shaw, nel 1914, denunciava così lo “scandalo” dell’Europa cristiana in guerra e di quella parte di clero nazionalista e bellicista che aveva tramutato «Cristo in Marte». E proponeva una clamorosa «serrata di tutte le chiese cristiane» fino al termine del conflitto. Purtroppo gli avvenimenti sono andati in modo molto diverso: i cristiani d’Europa si sono scannati al fronte, radunati dietro le bandiere nazionali piuttosto che sotto la croce. Fratello contro fratello. Eppure Benedetto XV aveva parlato e operato, fin dall’inizio del conflitto, a favore della pace. La sua elezione avvenne il 3 settembre 1914, alla vigilia della sanguinosa battaglia della Marna sul fronte occidentale. E le prime sue parole da Papa erano state di denuncia della disumanità della guerra. Il 1° novembre, quando ormai era chiaro che il conflitto si sarebbe evoluto in una terribile e lunga guerra di trincea, vide la luce la prima enciclica di Benedetto, Ad beatissimi apostolorum principis. Un testo anticipatore e modernissimo, in totale controtendenza con il clima, la cultura e il linguaggio imperanti.Perché, profeticamente, Benedetto XV metteva l’accento sul lato oscuro, luttuoso, della guerra, quello ignorato dalla retorica nazionalista, bellicista e patriottarda. Se il presidente del Consiglio italiano Salandra sosteneva la politica del «sacro egoismo», se Marinetti esaltava la bellezza estetica dello scontro, se D’Annunzio celebrava l’onore, il sangue e il sacrificio (arrivando persino, a Quarto, a fare una parafrasi bellicista del Discorso della Montagna: «Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati...»), il Papa già guardava oltre e lontano. Il suo pensiero era per le vittime e per le gravissime conseguenze umanitarie, sociali ed economiche della guerra: questioni che sembravano non riguardare affatto generali e governanti.Quando il Papa parlava delle battaglie come di «gigantesche carneficine», si metteva – unico tra i capi di un’Europa pervasa dal furore bellicista – in sintonia con chi pativa di più le scelte dei vertici nazionali. Operava dunque una decisa scelta di campo, non schierandosi con una delle parti in contesa, ma a favore di quel popolo afflitto e dolente delle trincee che, più che a ricoprirsi di gloria, pensava soprattutto a cavarsela tra il fango, le pallottole, la paura e gli orrori quotidiani. La denuncia della guerra, nell’enciclica di Benedetto XV, benché accorata, è di un realismo crudo e inesorabile: «Le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, tristi seguaci della guerra: si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani: languiscono, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto».Spiega lo storico Roberto Morozzo della Rocca, autore tra l’altro di La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (Studium 1980): «Ogni popolo credeva di avere Dio dalla propria parte. Benedetto XV ribalta questo coinvolgimento e non si schiera con nessuno. Una volta preso atto che le sue parole di pace verranno disattese e ignorate, preferirà combattere la sua battaglia sul fronte umanitario con l’assistenza ai feriti, ai prigionieri, alle famiglie». Un fronte caldissimo: basti pensare che l’ufficio della Santa Sede preposto all’assistenza dei prigionieri di guerra e delle famiglie di caduti e dispersi, evase durante gli anni del conflitto ottocentomila pratiche. Quando il Papa, verso la fine del 1914, affermava con forza questi principi, l’Italia era scossa dalle polemiche sulla opportunità o meno di entrare in guerra. Il mondo cattolico italiano, impegnato a rimuovere gli antichi steccati con il mondo liberale, fu investito in pieno dal nuovo e lacerante dilemma tra intervento e neutralità.Ma non ci sono solo le parole del Papa a orientare la maggioranza dei cattolici italiani verso posizioni contrarie alla guerra. La pace è, da sempre, un valore religioso. E ai contadini, che costituiscono la massa del popolo di Dio, le parole d’ordine dell’irredentismo, del nazionalismo, dei supremi interessi nazionali, non interessano. Ma saranno proprio loro, i giovani contadini, a pagare il prezzo più alto dei combattimenti.A livello di élite il movimento cattolico ha al suo interno posizioni assai diversificate. Si va dal conclamato sentimento filo-austriaco degli intransigenti, raccolti attorno alla rivista L’Unità Cattolica, all’interventismo democratico di giovani della Lega Democratica come Eligio Cacciaguerra e Giuseppe Donati, fino al pacifismo radicale di un Guido Miglioli. Ma il grosso dei dirigenti e dei militanti sembra orientato a un prudente neutralismo, ben distinto però da quello dei socialisti, con cui non c’è dialogo né incontro possibile. I cattolici italiani, in sostanza, lavoreranno e pregheranno fino all’ultimo per evitare la guerra. Ma al momento dell’entrata nel conflitto faranno il loro dovere di cittadini e di soldati. Dopo il 24 maggio 1915 il dilemma tra coscienza e obbedienza all’autorità statale sarà drammaticamente risolto a favore della seconda: i cattolici combatteranno e moriranno nelle trincee e negli assalti insieme agli altri soldati. Un dato significativo: alla fine della guerra, solo l’associazione giovanile dell’Azione Cattolica conterà nelle sue file più di diecimila morti. Mentre la chiamata alle armi di ecclesiastici (preti e seminaristi), che prestarono prevalentemente la loro opera nella sanità, riguardò circa 25 mila persone: tra loro Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII.«Anche se le parole di Benedetto XV sono state disattese persino in Italia – spiega lo storico Alberto Monticone che ha dedicato molti studi alla Grande Guerra – non si può però parlare di una sorta di divorzio tra il Papa e i cattolici. Il Papa parlava come pastore universale. Indirizzava i suoi discorsi ai responsabili delle nazioni, non invitava i fedeli a disobbedire al proprio governo».Il capo di Stato maggiore dell’esercito, il religiosissimo e inflessibile generale Cadorna, rappresenta una delle punte estreme dell’antinomia tra fede e guerra. Frequenta la Messa tutti giorni, ma non lo sfiora alcuno scrupolo quando invia migliaia di giovani al macello o caldeggia la pratica della fucilazione sommaria per «codardi» e «disertori». Il generalissimo ha voluto istituire l’assistenza spirituale per i soldati al fronte: in prima linea arrivano i cappellani militari, i preti con le stellette (ci saranno in servizio anche alcuni rabbini e pastori evangelici), che incoraggeranno i vivi e conforteranno feriti, moribondi e condannati a morte. Saranno in 2.400. Tra di loro uomini di pace, ma anche decisi interventisti, come padre Giovanni Semeria, don Primo Mazzolari, don Giovanni Minzoni (ucciso nel 1923 dagli squadristi fascisti) e padre Agostino Gemelli. Ma toccati con mano gli orrori della guerra, Semeria avrà un crollo psicofisico che evolverà in una crisi spirituale; mentre Mazzolari diventerà nel dopoguerra una delle voci più ascoltate e rappresentative del pacifismo cattolico.
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