giovedì 1 luglio 2021
Per decenni vittima di una “leggenda nera” e di un grave attentato per la sua attività in difesa dei perseguitati nella Cuba coloniale di metà ’800, il prelato raccontato dal regista Moreno
Una scena di “Claret”, sul fondatore dell’ordine dei Missionari claretiani a 150 anni dalla morte, del regista Pablo Moreno: il film sta per uscire in Spagna e sarà poi distribuito in Francia e in America Latina

Una scena di “Claret”, sul fondatore dell’ordine dei Missionari claretiani a 150 anni dalla morte, del regista Pablo Moreno: il film sta per uscire in Spagna e sarà poi distribuito in Francia e in America Latina

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«Permette?». La mano dell’arcivescovo si muove con lentezza. Prende due fogli di carta, il primo di colore bianco, il secondo nero e li appoggia sulla candela accesa. Dall’altro lato della scrivania, il generale sgrana gli occhi. «Non si preoccupi, non le darò fuoco. Da tempo la Chiesa ha smesso di farlo», aggiunge con un sorriso sornione l’interlocutore. «Mi dica, riesce a distinguere le ceneri dell’uno e dell’altro? Così, saremo tutti di fronte a Dio». Questa fu la risposta di Antonio María Claret a José De La Concha, uomo forte della Cuba coloniale, che gli aveva chiesto come mai gli importasse tanto degli schiavi. Non proprio l’atteggiamento di un alto prelato colluso con il potere, manipolatore e spregiudicato come a lungo è stato raccontato il fondatore della Società dei Figli del Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria, meglio noti come Missionari claretiani. Eppure la “leggenda nera”, costruita dai potenti del tempo, ferì la memoria del pastore nei decenni seguiti alla morte, a Fontfroide, vicino alla francese Narbona, il 24 ottobre del 1870. La sua biografia e le sue opere principali furono modificate per fabbricare quella che, un secolo e mezzo dopo, sarebbe stata definita una post-verità. A smontare una per una le fake news d’ancien regime fu, nel 1930, un intellettuale anticonformista, per molto tempo critico feroce di Claret: José Augusto Trinidad Martínez Ruiz in arte Azorín.

La sua inchiesta ora è portata sugli schermi da Claret di Pablo Moreno. Attraverso lo sguardo prevenuto, scettico, a volte cinico ma onestamente curioso di Azorín, lo spettatore comprende l’inganno. Ma soprattutto scopre, proprio come l’intellettuale novecentesco, dettaglio dopo dettaglio, l’autentica personalità di un uomo in anticipo sulla sua epoca. Per settant’anni, i claretiani hanno inseguito il progetto di raccontare il loro fondatore attraverso il cinema. Solo ora, però, sono riusciti a concretizzarlo. Prodotto da Contracorriente Producciones - Three Columns Entertainment e dalla famiglia Claretiana, il film, presentato in anteprima a Roma, uscirà in autunno in Spagna, in occasione del 150° anniversario della morte dell’arcivescovo canonizzato da Pio XII nel 1950. Distribuito da Project Film, poi, sarà diffuso anche in Francia e in vari Paesi dell’America Latina.

«Claret era un personaggio scomodo. Molto scomodo. In primo luogo, era abolizionista. Arrivato nel febbraio 1851 a Cuba come arcivescovo di Santiago, ebbe modo di conoscere la tragica condizione degli africani impiegati nella piantagioni di canna da zucchero. E denunciò con coraggio profetico gli abusi perpetrati dai latifondisti. Claret chiamò un pool di esperti giuristi per poter aggirare le disposizioni delle autorità e celebrare matrimoni misti, creò un pionieristico sistema di casse rurali, aiutò i contadini poveri promuovendo miglioramenti in agricoltura. E, insieme alla venerabile Maria Antonia Paris, si fece carico dell’educazione dei tantissimi bimbi e ragazzi che non avrebbero mai potuto permettersi un’istruzione », racconta Moreno. Non sorprende, dunque, che i “signori della Colonia” lo considerassero un nemico e avessero assoldato un sicario per toglierlo di mezzo. L’attentato di Holguín, nel 1856, non uccise Claret ma gli lasciò una profonda cicatrice al volto. Alla difesa appassionata dei diritti umani, l’arcivescovo abbinò un forte slancio missionario: ha percorso la diocesi quattro volte, a piedi o a cavallo, evangelizzando una terra che era rimasta per quattordici anni senza pastore. Il rientro in Spagna, a malincuore, nel 1857, lo catapultò alla corte di Isabel II. Poco interessato agli intrighi di palazzo, divenne in breve un punto di riferimento per la regina che lo scelse come confessore e che con lui creò un rapporto quasi filiale.

Fu la forza spirituale a far resistere Claret alle lusinghe del potere, riuscendo a non approfittare mai della fiducia accordatagli dalla sovrana. L’esilio in Francia, in seguito alla caduto di Isabel, pur doloroso, fu vissuto quasi come una liberazione dalla gabbia dorata della corte. E l’occasione per dedicarsi interamente alla preghiera e ai lavori del Concilio Vaticano I. Ripercorrendo, forse in modo eccessivamente didascalico la tappe salienti della sua vita, Pablo Moreno descrive un uomo e un arcivescovo inquieto in tempi inquieti, come quelli dalla Spagna dilaniata dalla guerra civile tra carlisti e isabelinos e le Colonie intrappolate nelle loro contraddizioni. Proprio questo rende Claret vicino alla sensibilità contemporanea. «È questa figura moderna, controcorrente, coraggiosa quella che ho voluto raccontare – conclude il regista –. Per far piazza pulita, in modo definitivo, delle incrostazioni di false verità ancora presenti soprattutto in alcune frange del mondo della cultura». Per questo, il vero protagonista del film è Azorín, l’intellettuale chiamato a un vero esercizio di laicità. Quello di sospendere davvero il giudizio – e il pregiudizio – e di lasciarsi interrogare dalla realtà, anche quando quest’ultima spariglia le carte. Un messaggio dirompente negli anni Trenta dilaniati dalle ideologie. Ma ancor più spiazzante e necessario ora che la morte apparente di queste ultime diviene terreno fertile per un «unico pensiero possibile»: quello dell’immutabile status quo, sordo al grido del mondo.

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