domenica 1 novembre 2015
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Prima del Fulmine (Usain Bolt) ci fu il Vento. Il Figlio del vento. «Sono orgoglioso di essere paragonato a un elemento della natura, ma è impegnativo», scherza Carl Lewis, leggenda vivente dello sport: assieme al discobolo Al Oerter è l’unico essere umano ad aver vinto quattro medaglie d’oro in quattro Olimpiadi estive diverse – fra il 1984 e il 1996 – nella stessa specialità (salto in lungo). Oggi Lewis ha 54 anni e un fisico ancora impeccabile, solo un po’ appesantito dalle «21 libbre in più [9 chili e mezzo, ndr] rispetto al peso dei miei anni migliori». È a Roma per fare da testimonial all’odierna Corsa dei Santi, promossa dalla fondazione “Don Bosco nel mondo” per sensibilizzare sugli orfani liberiani del virus ebola (c’è anche un numero per gli sms solidali: 45598): «Oggi si corre per qualcuno che non si conosce e mai si conoscerà, proprio per questo è importante farlo». Poi si siede e apre il libro di una vita, con un occhio a quell’oggi segnato dal giamaicano Bolt (che, tuttavia, non nomina mai). Come si definisce oggi, in poche parole? «Un uomo felice. Faccio una vita che tanti vorrebbero. Sono sempre stato comunque uno che non si risparmia, che lavora sodo, con impegno e dedizione». Ma oggi qual è il suo lavoro, dopo aver tentato la via anche come cantante (nel 1987 incise anche un disco)? «Alleno i giovani all’Università di Houston, la città dove vivo. La musica? Ci ho provato, c’è sempre stata nella mia famiglia: da piccolo suonavo il violoncello e cantavo nel coro». È più dura vincere nove ori olimpici o affrontare la vita da post-atleta? «Lavorare per vincere nove ori alle Olimpiadi è già una bella fatica – dice ridendo –. Diciamo che vincere tutti quegli ori ha reso parecchio più facile il dopo, lo so bene». E nella sua vita che spazio ha la fede? «Bella domanda... Sono però più un essere spirituale che religioso. Credo nella spiritualità insita nel cuore, nell’anima, più che in una struttura religiosa organizzata». In quanto corre ora i 100 metri? «Non li corro più da molto. Ora vado in bici. Ma ho sempre amato tutti gli sport: da giovane ho giocato sei anni a calcio, ho fatto nuoto e ginnastica. L’atletica era però la mia dimensione. È un grande sport: può abbattere i muri e unire il mondo». La domanda che le faranno tutti. Lewis, Owens, Bolt: chi il più grande? «Sarà la storia a dirlo. Naturalmente ammiro Jesse Owens, ma credo che dovremo attendere perché le percezioni nel tempo cambiano. Ciascuno di noi ha corso e vinto contro gli atleti del suo tempo. Io comunque mi sono sempre sentito più lunghista che velocista». Se dovesse dare un consiglio a Bolt? «Gli darei un consiglio di vita: quello che conta davvero è quello che fai per gli altri. Prima da atleta, e anche dopo». Il rimpianto più grande? «Ogni volta che perdevo, non direi un evento in particolare. Mi sono cimentato su tutti i fronti e con i più forti, ma volevo sempre vincere». Il momento magico? «I Mondiali di Tokyo 1991. Per la prima volta vinsi i 100 in pista [gli ori di Roma 1987 e delle Olimpiadi di Seul 1988 furono dati a tavolino, ndr] davanti al mio più giovane amico Leroy Burrell. E poi ci fu la magica finale del lungo...». Quella del testa a testa con Mike Powell, che fece il primato del mondo a 8 metri e 95... Ma che cosa è la corsa? «Quando la spiego ai giovani, dico che correre è come lanciare una pietra sul pelo dell’acqua. L’avvio può anche risultare semplice ma, se non c’è tecnica e allenamento, poi si affonda. Oggi gli sprinter sono molto più muscolosi, spero che si torni a fisici più agili. È la tecnica che deve prevalere sulla potenza». Quali insegnamenti dà loro? «Mi riesce bene insegnare. Soprattutto trasmetto gli insegnamenti ricevuti dal mio maestro, Tom Tellez. Dico loro che bisogna darsi da fare subito, senza aspettare, ma allo stesso tempo senza bruciare le tappe perché i risultati non si ottengono dall’oggi al domani. E che, talento a parte, il segreto è uno solo: allenarsi, allenarsi, allenarsi». La potenza può essere dovuta anche al doping. Trova giusto che un atleta squalificato per doping “grave”, torni poi a gareggiare? «Dipende dagli atleti. Nel senso che sono loro che devono dichiarare pubblicamente come è giusto affrontare questo fenomeno oggi. Purtroppo c’è troppa reticenza sul tema. Anche se credo che non sarà mai sconfitto: ci sarà sempre, come è per l’alcol, le droghe». Arriverà mai un tempo in cui il record dei 100, o del lungo, non potrà essere migliorato? «Non credo. Il valicare i limiti è insito nell’essere umano. I tempi di oggi una volta erano ritenuti impossibili. È come la corsa allo spazio: dopo la Luna, ora si pensa a Marte». È vero che lei è vegano? «Sì. Soprattutto la seconda parte della mia carriera l’ho fatta da vegano. Ho dimostrato così che non servono proteine animali per andare forte, anche se io ero fortunato perché potevo permettermi un cuoco specializzato. Non lo sono però in modo assoluto: ogni tanto mi concedo anch’io una bistecca. Non sono così salutista come sembra. Ma ho sempre pensato, non solo da atleta, che il mio corpo fosse il mio tempio. Da curare per ottenere il massimo ed essere felice». E quali sportivi italiani conosce e ammira? «Ai miei tempi c’era Mennea. Mi è spiaciuto sapere della sua morte. Altri? Sono vecchio, non ricordo... Ho conosciuto quel giovane, Andrew Howe: un vero talento, lungo e velocità come me. Peccato per i troppi infortuni».
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