sabato 25 maggio 2019
Il cantautore racconta il nuovo album “Ballate per uomini e bestie”: «Un disco semipagano e quasi cristologico dove denunzio le nuove pestilenze via web e l’incapacità dell’uomo di amare il prossimo»
Il cantautore Vinicio Capossela nel video di “Il povero Cristo”, tratto dal nuovo album “Ballata per uomini e bestie”

Il cantautore Vinicio Capossela nel video di “Il povero Cristo”, tratto dal nuovo album “Ballata per uomini e bestie”

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«Un album semipagano, ma anche quasi cristologico, un cantico punk-medievale per tutte le creature di un mondo in cui il senso del sacro, di manifestazione del sacro nella natura, è scomparso». Così Vinicio Capossela, cantautore sempre sorprendente, affascina con il suo nuovo originalissimo lavoro Ballate per uomini e bestie (La Cùpa/Warner Music, entrato direttamente al secondo posto in classifica) riflettendo su vita, morte, sacrificio, cultura dello scarto con bel ritmo e citando Wilde e Keats, licantropi e cavalieri, san Francesco e sant’Antonio abate. Sino ad arrivare a Gesù nella delicata Il povero Cristo lanciata a Pasqua con un video firmato da Daniele Ciprì e girato a Riace con la partecipazione del protagonista del Vangelo secondo Matteo di Pasolini Enrique Irazoqui e Marcello Fonte. Ne La peste, poi, Capossela denuncia le derive del web, dedicando la canzone a Tiziana Cantone «immolata sulla colonna infame dell’ultima pestilenza» che la condusse al suicidio. Per questo ha presentato il suo nuovo lavoro nella suggestiva chiesa di San Carlo al Lazzaretto di Milano. E, nell’attesa del tour autunnale, stasera debutta al Castello di Sermoneta (Lt) il primo dei suoi speciali atti unici.

Come maiVinicio Capossela ha deciso di debuttare proprio qui?

«Questo luogo è la croce in mezzo al dolore degli appestati raccontati dal Manzoni. Un luogo di sofferenza, ma anche di fraternità. Nella pestilenza vengono meno tutti i vincoli familiari, sociali e di appartenenza, ma allo stesso tempo c’è comunque la consapevolezza che per quanto ognuno sia affidato a se stesso, c’è un luogo in cui ci si apparta e ci si soccorre».

Di quale peste sta parlando oggi?

«In tempo di peste, come nel Decamerone ci si rifugia nel racconto, non prima di avere esposto la propria denunzia. Questa è un’epoca in cui non si può stare zitti ed essere distratti. Per questo ho scelto la forma della ballata che approfondisce le storie. Una pestilenza infuria in questo Medioevo altro e tecnologicamente evoluto: una pestilenza morale, etica, di linguaggio, una corsa verso il basso dove si diffondono la corruzione, la violenza, la pornografia».

Lei si riferisce anche al web?

«Il web è un mezzo potente in cui non si è ancora elaborata un’etica e una normativa, ma è come l’aria: non è la pestilenza, ma il mezzo attraverso cui si trasmette. Io mi rifugio dalla dittatura dell’attualità nutrendomi delle cose belle che l’uomo ha cercato di lasciare, i libri, i quadri, la musica. Purtroppo oggi che finalmente ci si affranca dalla fatica con le macchine, ciò non significa benessere diffuso, ma invece aumentare la diseguaglianza sociale. Ci sono strumenti tecnologici magnifici di accesso alla cono- scenza, e invece diventato strumenti di accesso all’odio, alla disinformazione, al basso invece che all’alto».

Anche il suo “povero Cristo” alla fine rinuncia a salvare l’uomo. Non le pare un po’ troppo pessimista?

«Racconto l’impossibile realizzazione della buona novella in un mondo dove l’uomo sembra incapace di seguire il suo comandamento, quello fondamentale e più semplice: ama il prossimo tuo come te stesso. Il Vangelo è una storia di straordinaria umanità. Il Cristo si fa uomo portando la vera croce che è vivere amando la vita sapendo di morire. Il povero Cristo è anche colui che ci passa accanto e che non vediamo».

Come i tanti ultimi che arrivano da noi?

«In tempo di peste si dava la caccia all’untore. Non sapendo cosa stesse accadendo, si generava ogni tipo di sospetto e si cercava il capro espiatorio, come oggi gli immigrati e gli zingari. Gli unici che ci guadagnavano erano i monatti, come una certa classe politica di oggi».

Lei torna a parlare di croci e sacrificio utilizzando anche le parole di Wilde.

«È vero, ritorna in più punti il grande mistero dell’uomo, questa ineludibilità e necessità del sacrificio. La figura cristica assume diverse forme, come l’orso ammaestrato di In città in città, un re decaduto che diventa un buffone e nel ballo finale cade perché “anche Cristo nudo in piazza fu spogliato”. O nella Ballata del carcere di Reading, uno dei più sentiti atti di denuncia dell’oscenità della pena di morte, cito “la croce che Cristo ha donato a salvezza di chi ha peccato”. Non sono credente, ma condivido ciò che scrive Wilde nel De profundis: “Cristo non è morto per salvare la gente, ma per insegnare alla gente a salvarsi da sola”. Qui sta il profondo messaggio cristiano che seguiva anche Francesco».

Di cui lei mette in musica i “Fioretti”.

«La sua perfetta letizia è un apparente paradosso che dimostra invece che l’andare oltre a noi stessi è il solo merito di cui ci si possa gloriare».

Il suo album è ricco poi di brani dedicati agli animali, un novello bestiario.

«Le ballate comprendono i nostri compagni di creazione, animali metaforici, orsi, giraffe, lupi, maiali e la lumaca, come simbolo della sacralità della lentezza e dell’“humilitas” che ci può far accedere al grande. E poi i quattro Musicanti di Brema, animali “esodati” e scartati ormai inutili per il ciclo produttivo che scampano alla morte formando un gruppo musicale, ovvero dandosi all’arte. Gli animali entrano nel mondo dell’uomo antropizzati, anche nei bestiari medievali la religione attraverso di loro mostrava le caratteristiche dell’uomo. Poi c’è sant’Antonio abate, tanto amato nella cultura contadina, che qui affronta le tentazioni di oggi, dall’avvelenare la natura a fare merce dell’immagine, dal potere al tabù della morte».

A tale proposito, non manca neanche una giocosa “Danza macabra”.

«Il grande mistero della vita è la morte. Nella mia carriera posso vantare uno dei pezzi più gioiosi sulla Resurrezione, L’uomo vivo, ispirato alla processione di Scicli dove il Cristo Risorto viene chiamato “U’ Gioia” perché è scampato alla morte. Mi è sempre piaciuto come le religioni si fondono con la cultura popolare».

Se ne occuperà anche lo “Sponz Fest”, il festival che lei cura nella sua Irpinia?

«Il festival si svolgerà dal 19 al 25 agosto e collaborerà con Matera capitale. Mia sorella Mariangela Capossela, che è la vera artista di famiglia, proporrà una performance collettiva, una lamentazione itinerante dall’Alta Irpinia sino alla Basilicata. In questo mondo completamente desacralizzato, la morte è l’ultimo dei tabù, con la malattia è un accidente che ostacola il ciclo produttivo: diversamente dal mondo contadino, oggi si muore soli e appartati. Il pianto rituale cerca di portare alla misura del verso una cosa smisurata come il nulla che la morte rappresenta. Ognuno può scegliere cosa piangere del mondo che sta scomparendo nel virtuale: il nostro rapporto con le piante, gli animali, il caldo e il freddo, la manualità delle cose. Come i monaci pregano per tutti, io piango il mondo anche per te che non te ne rendi conto».

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