martedì 5 ottobre 2021
Fondatore dei Pac nel 1978, dodici anni fra reclusione e misure alternative, promuove giustizia riparativa e carceri più umane La sua vita cambia quando gli scrive il suo ex prof Cesare Cavalleri
Arrigo Cavallina

Arrigo Cavallina - archivio

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Storie da un’amicizia. Quella fra Cesare Cavalleri, direttore di “Studi cattolici” e delle edizioni Ares, e l’ex terrorista, fondatore dei Proletari armati per il comunismo, Arrigo Cavallina. Nata per una reminescenza di scuola – il professor Cavalleri riconobbe in lui, imputato in un maxi-processo, l’ex allievo in un istituto tecnico di Verona, di cui conservava un caro ricordo – è divenuta nel tempo un sodalizio umano ed editoriale. La prima lettera, spedita a Rebibbia, data 16 aprile 1984, ma il carteggio è proseguito anche quando non c’era più l’ostacolo delle barriere del carcere. Ne sono nati anche dei libri. Nel 2005 uscì Una piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo e ora, di nuovo per Ares, Il terrorista e il professore. Lettere dagli anni di piombo & oltre( pagine 344, euro 16,00), che è il carteggio fra i due uscito a doppia firma. Cavallina da 28 anni è un uomo libero, impegnato a parlare di non violenza e umanizzazione delle carceri ovunque lo si inviti. Spesso, lui la considera una sorta di «pena accessoria», gli viene chiesto di parlare di Cesare Battisti, uno dei “proletari” che aveva arruolato alla lotta armata da semplice rapinatore che era, impegnato in tutti questi anni a scappare da un continente all’altro, per sfuggire a quel carcere che a Cavallina, invece, ha fatto bene, consentendogli anche di approfondire lo studio delle sacre scritture e conseguire un seconda laurea.

Di che cosa era accusato quando Cavalleri si fece vivo?

Ero coinvolto nel processo contro Potere operaio e la rivista “Rosso”, per alcune rapine e l’incendio alla Face Standard del 1974, compiuto per protesta contro il colpo di Stato in Cile. Arrestato nel 1975, restai in carcere tre anni, e attraverso la rivi- sta “Senza galera” iniziai a occuparmi della condizione carceraria. Assolto, uscii nel dicembre 1977, ma il mio iter processuale è andato avanti molti anni ancora. Nel frattempo, nel 1978 fondai con altri militanti di Milano i Pac, coinvolgendo anche Cesare Battisti. Dal ’79 all’86 di nuovo in carcere, poi ai domiciliari e al lavoro esterno con Exodus. La condanna definitiva arriva nel 1993, accusato anche di concorso in uno degli omicidi compiuti dai Pac, quello del maresciallo Santoro.

Assolto e messo in condizione di fare altri danni, condannato quando il suo recupero era già ultimato. Quando era finito il sogno rivoluzionario?

In galera, molto presto. Ma anche se non pensavo più di vincere la rivoluzione, volevo alleviare la ferocia delle carceri simboleggiata dalle carceri speciali.

Così fondò i Pac. Quando se ne staccò?

Già nel 1979. Mi sentivo sconfitto, la gente invece di seguirci ce l’aveva con noi.

Così anticipò di almeno 5 anni il fenomeno della dissociazione.

Mi resi conto che di tanti temi cruciali, dalla questione educativa alla condizione femminile, dall’ambiente alla salute, non ci eravamo mai occupati. Bisognava allora uscire dalla logica della merce. Ho capito che non sei tu che usi le armi, ma sono le armi che usano te, da mezzo diventano fine.

Poi il nuovo arresto...

Mi occupavo principalmente della malattia di mia madre, quando il 21 dicembre 1979 vennero a prendermi, nel quadro dell’operazione “7 aprile” contro Toni Negri e Autonomia. Ma stavolta in carcere ho potuto incontrare persone impegnate a superare il paradosso per cui il carcere, che dovrebbe favorire un percorso di recupero, finiva, attraverso trattamenti disumani, per creare un’aura di eroi nei reclusi, radicandoli ulteriormente nel progetto eversivo.

E nel 1984 si rifà vivo Cavalleri.

Mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Ne scaturì un impegno comune contro la stupidità della pena. Pestaggi come quelli che ancora si registrano, vedi il recente caso di Santa Maria Capua Vetere, non servono a niente. Perché tenere sotto chiave persone capaci, anche istruite che, in un’ottica di giustizia riparativa, possono rendersi utili ponendo rimedio ai danni commessi alle persone o alla società?

Poi l’assurda incarcerazione del 1993, quando era ormai reintegrato.

Dovevo scontare un residuo di pena di un anno e mezzo, ma ebbi presto accesso alle misure alternative e dopo qualche mese ottenni la liberazione anticipata. Nel frattempo il carcere era cambiato, c’era stato il riconoscimento della dissociazione, dopo la stagione dei pentiti che avevano beneficiato di sconti di pena in cambio di rivelazioni, ancora in una logica emergenziale “di guerra”. Il contributo di Cavalleri fu importante. C’erano state molte resistenze.

Da quali settori?

Il mondo cattolico fu determinante, grazie alla testimonianza dei cappellani delle carceri, e soprattutto al gesto di Giovanni Paolo II che a Rebibbia incontrò e perdonò il suo attentatore Ali Agca. Le ostilità ven- nero soprattutto dal partito comunista. Ma preferisco ricordare i tanti che ci vennero in aiuto: la deputata Leda Colombini e il marito Angiolo Marroni, vicepresidente della Regione Lazio. Ma anche Ettore Scola e Luigi Magni, registi vicini al Pci, ci hanno sostenuto.

Ha lottato contro le angherie del carcere, ma a lei ha fatto più bene che male...

Di sicuro ho tratto più beneficio dalle relazioni nate in carcere che dalle ore passate alla manovella del ciclostile appresso a stupidaggini. Ma questo lo si deve all’impegno di uomini come l’allora direttore degli istituti di pena Niccolò Amato, o il senatore Mario Gozzini, o il cardinale Martini.

Battisti, invece, come se avesse fermato le lancette dell’orologio a 40 anni fa.

Non lo giudico, non so se fossi stato all’estero, libero, come mi sarei comportato. Dipende anche da come si pone la giustizia, se ti chiede solo di pagare il conto o se propone un percorso riparatore, a risarcire la società che hai offeso.

Come giudica le reazioni al via libera della Francia all’incriminazione di alcuni ex terroristi?

Alcuni politici e opinionisti hanno dato sfogo a un’idea di giustizia vendicativa e feroce che non porta da nessuna parte. Ma confido che il ministro della Giustizia Marta Cartabia, studiosa della giustizia riparativa, possa contribuire a individuare un percorso di cambiamento anche per queste persone. Non potendo riportare in vita le vittime la riparazione è l’unica via ragionevole.

Cadute le ideologie per i giovani la nuova insidia viene da Internet?

Noi cademmo in una visione totalizzante, loro rischiano la totale superficialità. Ma l’errore è lo stesso: il rifiuto delle relazioni umane. L’antidoto consiste nel rimettere al centro le relazioni concrete, non virtuali, fra esseri umani.

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