domenica 4 settembre 2011
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Ricardo Paco Chipa sa tutto del nematode e della tignola che ammazzano i raccolti, eppure anche lui, prima di affondare la vanga nella terra livida e disotterrare la papa, si mette in un angolo, con la sua laurea in agronomia e il suo inglese, e aspetta, con gli altri contadini. Il centro della scena è tutto dello sciamano. Stessi vestiti luridi e berretto di lana sgargiante. Si inginocchia, mormora qualcosa, inizia ad officiare un rito vecchio di diecimila anni. Parole e gesti che dovevano suggellare questo momento anche a Tres Ventanas, dove sono stati ritrovati i resti delle più antiche patate coltivate al mondo, 8.000 avanti Cristo. Il sacrificio cui assistiamo è meno cruento di quelli umani che permisero agli spagnoli di disprezzare le popolazioni precolombiane e sterminarle: una breve preghiera e tre foglie di coca vengono sotterrate per ringraziare Pachamama di quanto raccoglieremo. Quindi lo sciamano si leva, i contadini si abbassano e tra le zolle spuntano le prime papas. Tira un vento freddo a quattromila metri, tra questi amerindi che allevano l’alpaca e corrono scalzi su sassi che scottano, tanto sono gelati. Il loro volto conserva il profilo che rese famosi i figli del Sole, ma loro giurano di discendere dal puma, simbolo di Cusco, o dal condor, che regalò il suo nome a Machu Picchu... tanto i turisti che fotografano lo sciamano non capiranno mai nulla della Madre Terra, Pachamama. Se ne sono andati Pizarro e i gesuiti, il culto di Wiracocha è nei libri di storia e le isole galleggianti del lago Titicaca si ripopolano solo su richiesta dei tour operator, ma i quechua che hanno dominato gli altopiani continuano a non fare nulla – dal contrarre matrimonio al cavar patate – senza avere preventivamente ringraziato la Terra. Una madre matrigna, a giudicare dalle rese: la produzione media – cinque tonnellate a ettaro da vendersi per un sol al chilo – non fa onore a una solanacea che rappresenta la maggior fonte di carboidrati per interi popoli e con il suo 18% di amido, pochissimi grassi e molto potassio, vitamina C e polifenoli, ha rivaleggiato coi cereali nella dieta del Vecchio mondo fino a metà dell’Ottocento, quando l’epidemia di peronospera in Irlanda scrisse una delle pagine più tragiche della nostra storia alimentare. Il raccolto che cuoce sotto la cenere di un braciere scavato nella terra è la fotografia delle Ande: patate gialle, viola, nere... un assaggio della sterminata genealogia del tubero nativo. In Perù sono conservate più di quattromila varietà, per lo più sconosciute ai mangiatori di chips ; peccato, vien da dire, giacché un italiano su due consuma patate e, a sentire gli esperti di marketing, il ventitré per cento ne è ghiotto. E poi, alcuni tuberi andini sono vere pillole della salute – la patata viola è ricca di antocianine, che prevengono il cancro e l’invecchiamento – e molti non sono neppure patate. Su queste montagne trovi anche campi di manioca, amica dei celiaci, di batata (la famosa patata dolce), di arracacha, utilizzata per l’alimentazione dei neonati, e di ortaggi semisconosciuti ai mercati europei, come la oca , che sembra una papa e invece è la radice di una pianta erbacea, l’olluco, apprezzata per la sua croccantezza, la mashua – utilizzata dall’esercito inca per le sue proprietà antiafrodisiache, al contrario della maca , che è un energizzante – oppure come lo yacón , parente del girasole. L’assortimento non è sempre un pregio. Prendiamo le patate che abbiamo raccolto oggi: varietà e calibri talmente diversi da far impazzire i grossisti dell’Ortomercato di Milano. Eppure Paco e i suoi sorridono compiaciuti: hanno già individuato i pezzi che diventeranno chuno : congelata e disidratata, quindi essiccata, reidratata nell’acqua corrente di un ruscello, sbucciata e nuovamente essiccata, la patata andina si conserva per anni, e non è un modo di dire. «Le papas sono la ricchezza delle nostre montagne; non dobbiamo perderne neanche una», ci spiega l’agronomo in ciabatte. Che sciorina la mission del suo popolo di fronte al pool di Coltura & Cultura, incaricato da Bayercropscience di predisporre un corposo dossier sul solanum tuberosum (www.colturaecultura.it/): «Siamo custodi della biodiversità – dice –. La patata è nata qui, millenni di anni fa. Le varietà sono così numerose sulle Ande perché questa è la loro culla e nella culla non si fa selezione ma si conserva: per voi sono solo cibo ma per noi le papas rappresentano l’identità e la cultura del popolo e il legame quotidiano con Pachamama». Quanto questi contadini siano convinti di essere i guardiani di Pachamama deve averlo capito anche Fujimori allorché ha visto fallire il piano di portarli a vivere a Cusco, la culla incaica. Gli indigeni sono fieri della lingua quechua ma considerano Qoricancha, Sacsayhuaman o Qenqo, con i loro templi ciclopici, mera archeologia. In città, della cultura precolombiana è rimasto poco, se si eccettua la chica, una bevanda ottenuta dalla fermentazione del granoturco, e il folclore dei festival del Sole. Al contrario, l’identità andina resiste su queste vette ostili, nel silenzio rotto dal vento, lontano dal Perù ispanico. Non che la vita al di sopra dei quattromila metri sia facile. Anche chi ci arriva in torpedone si salva dal soroche, il malessere cagionato dalla scarsità di ossigeno delle forti altitudini, masticando la coca. Pratica tradizionale quanto ripugnante: chi cerca sensazioni forti sappia che ruminare le foglie “proibite” produce lo stesso piacere che Qdegustare la siepe del vicino. Tuttavia l’alcaloide contenuto nella pianta, che si accompagna a carotene, ferro, calcio e a una mezza dozzina di sostanze energizzanti, evita il ricovero in ospedale per ipossia. Per questo, i turisti ciucciano felici inseguendo il condor con i loro teleobiettivi, lo sciamano assorbe dalla coca poteri divinatori (o, almeno, lui ne è convinto) e tutti gli altri masticano per aver la forza di coltivar patate. uassù si raccolgono ancora a mano, una per una. Quando Paco ti saluta con i denti intartariti dal lungo ciccare e le mani terrose, vien da pensare, esattamente come Pizarro, di aver a che fare con un popolo sottosviluppato. Senonché Lima, dove ha studiato Paco, grazie al Centro internazionale della patata è diventata il punto di riferimento della scienza mondiale in materia di solanacee e il Potato Park – dove ci troviamo ora, dopo una serie infinita di sobbalzi dell’autobus (ma questa, per chi ce la fa, è un’immensa pista di trekking) – è considerato un incubatoio scientifico da numerosi istituti di ricerca francesi, indiani e africani. Il sospetto di trovarsi a confronto con una cultura dalle solide basi scientifiche si rafforza percorrendo la cordigliera orientale dell’Urubamba, la Ruta del Cóndor, a strapiombo sui quattromila metri di Sacaca. La valle sacra è tuttora tempestata dai terrazzamenti degli agricoltori “neolitici” che sfamavano l’esercito inca. Autentica scienza fossile. I quechua sapevano sfruttare l’orografia e le variazioni di altitudine per ottimizzare, secondo temperatura e piovosità, le produzioni di cereali e patate, che alimentavano con irrigazioni permanenti, riuscendo a calendarizzare le coltivazioni e ad acclimatare le piante non autoctone. Tutto ciò molto prima di Pizarro. La prova che ci troviamo di fronte ai resti di una grande civiltà si trova a Moray. Da lontano, sembra un anfiteatro romano, invece è un laboratorio. Sfruttando una depressione naturale, gli Inca realizzarono i grandi terrazzamenti concentrici che digradano tra 3.500 e 3.200 metri sul livello del mare. Gli antenati di Paco, che a Maras riuscivano a estrarre il sale dalle acque della montagna, avevano scoperto che a Moray ad ogni variazione altimetrica la temperatura aumentava o diminuiva in modo costante, assicurando ai coltivatori un parametro prezioso per selezionare le piante più resistenti e produttive. Il Potato Park è l’ultima progenie di quella cultura. Alla sua realizzazione ha collaborato anche la fondazione Cariplo. Si estende su dodicimila ettari, a ridosso dell’area archeologica di Pisaq e a quaranta chilometri da Cusco, a pochi minuti dalla Valle sacra e dal Vilcanota, il fiume dove nacque il dio Sole. Si sale tra 3.200 e 5.000 metri, l’ideale per la patata. Sulla costa peruviana, infatti, avanza il deserto e scendendo verso ovest incontri l’Amazzonia. La cordigliera filtra i venti secchi del Pacifico e le piogge grasse della foresta tropicale, preservando una serie di microclimi che le popolazioni andine hanno trasformato nella culla della biodiversità. «A seicento metri – ci spiega Paco – troviamo mais e cotone, coca fino a 1.800. Salendo, iniziano la papa , la quinoa e la kiwicha ». La quale è una specie di amaranto dall’alto contenuto proteico che nessuno si filava fintanto che la Nasa non la inserì nella dieta degli astronauti. Il parco è promosso dal Centro internazionale della patata andina, che ha creato la più grande banca del seme a Lima e collabora con gli indigeni per conservare in questa zona seicento diverse varietà native del tubero nazionale. Sono stati messi in rete alcuni villaggi – Sacaca è la “porta”, Kuyo l’area archeologica, Chawaytire ospita il ristorante turistico, Pampallaqta il centro di produzione tessile, Paru Paru la regione dei laghi e Amaru le coltivazioni – rispettando i principi della vita andina, dalla reciprocità (ciascun contadino ha un «Icampo suo, ma ognuno lavora anche i campi degli altri) alla sovranità assoluta della comunità. Trasformando terreni marginali in una riserva della biodiversità si è riusciti a dare un futuro a seimila nativi e a raggiungere tre “obiettivi del millennio”: sradicare la fame, garantire l’ecosostenibilità delle coltivazioni e l’eguaglianza tra uomo e donna. l lavoro è organizzato in forme non discriminatorie. Le donne trasformano le piante coltivate dagli uomini – conferma Clelia, che coordina la produzione cosmetica – recuperando formule inca. Produciamo saponi e creme a base di estratti naturali, tutti prodotti certificati dal ministero della Sanità peruviano, i turisti sono interessati e gradualmente anche il mercato ci premia».
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