domenica 21 febbraio 2021
Una statua di Dante a Firenze

Una statua di Dante a Firenze - -

COMMENTA E CONDIVIDI

A Dante non sembra vero. La domanda che lo tormenta dall’Inferno, ora, in Paradiso, può esser rivolta alle anime dei sapienti, ricevendone sicura risposta. Toccato dalla pena eterna dei golosi, prostrati nel fango, percossi da un miscuglio di grandine, acqua e neve sporca, il poeta chiede a Virgilio circa la sorte di questi spiriti, dopo il giudizio finale, quando si ricongiungeranno con la loro carne: il tormento diminuirà? Rimarrà invariato? Crescerà? La risposta del latino è pungente: «Ritorna a tua scienza'! Stando a lui, Dante ha già la competenza sufficiente per rispondere da sé. Infatti, la teologia scolastica, ben conosciuta dal fiorentino, afferma che 'quanto la cosa è più perfetta / più senta il bene, e così la doglienza»: la percezione del piacere e del dolore è un criterio per stabilire la gerarchia di quanto esiste. Insomma: vista la sua insensibilità, un sasso è meno compiuto rispetto a un albero; gli animali sono più raffinati dei vegetali giacché più sensibili; uomini e donne sono i più pregiati perché nessuno percepisce il piacere e il dolore come loro. In breve: quando le anime dei dannati si riuniranno ai corpi, la pena si acutizzerà, dato che, a motivo del corpo, la loro sensibilità sarà più completa ( Inferno VI, 100-111).

Ciò significa che la carne porta a compimento l’anima (alla faccia di chi ritiene il pensiero medioevale oscurantista e disincarnato!). Il rimprovero di Virgilio evidenzia il lapsus di Dante che, pur esperto, istruito credente, sul più bello dimentica l’alfabeto e la poesia della sua stessa fede. In Purgatorio, Dante dimostra d’aver appreso benissimo la lezione. Infatti descrivendo il canto degli angeli, non trova immagine migliore di questa terzina mozzafiato: «Quali i beati al novissimo bando /surgeran presti ognun di sua caverna /la revestita voce alleluiando»( Purgatorio XXX, 13-15). La sublime musicalità degli angeli è audacemente paragonata all’'Alleluia!' cantato dai risorti con voce finalmente rivestita di carne, quando, nell’ultimo giorno, allo squillo della tromba, svelti usciranno dalle fosse. Senza la carne, le anime non sanno cantare l’Alleluia della vittoria; ovvero sono incapaci di esultare a squarciagola per la rivincita sulla morte. Eppure, manca qualcosa. Infatti, in Paradiso, in mezzo a due cerchi concentrici di anime di sapienti, la domanda posta nell’Inferno riaffiora. Anzi si moltiplica e appuntisce, trasformandosi in una batteria di quesiti. A quegli spiriti luminosissimi e fiammeggianti di gioia, Dante per bocca di Beatrice chiede: «Con la risurrezione dei corpi, quando la carne si riunirà alle anime, queste saranno ancora così splendenti? La materia non offuscherà la visione di Dio? Appesantite dal corpo, godranno ancora questa gioia raggiante?» (cfr. Paradiso XIV, 10-18).

È Salomone, il più sapiente tra i nati di donna, a prendere la parola, spiegando che, quando i corpi si riuniranno alle anime, queste non subiranno decremento alcuno della loro gioia e potenza; al contrario godranno ancora più, perché ancor meglio vedranno Dio. In altre parole: fino alla risurrezione dei corpi, persino ai santi manca qualcosa: proprio quella carne che li abiliterà alla gioia davvero compiuta. Alle parole del figlio di Davide, i due cerchi di anime s’infiammano di felicità, e gridano 'Amen!', desiderando riavere al più presto i loro corpi. Ma ecco il colpo di genio del Poeta: quel desiderio delle anime non è solo per se stesse, ma è anche per i loro genitori che quei corpi hanno generato, nutrito, vestito, aiutato a crescere. È anche per rispetto di chi quei corpi ha amato, accarezzato, baciato, goduto, curato, sepolto.

La risurrezione del corpo non è solo la perfezione dell’anima, ma anche un atto di giustizia del Creatore verso gli affetti che hanno consolato quei corpi. La risurrezione della carne è un debito che Dio sente di avere verso chi ha amato quei corpi. Come potrebbe Dio esser giusto se non restituisse a un uomo il corpo della sua donna, a un padre e una madre i corpi dei loro figli, a ciascuno i corpi dei loro fratelli, sorelle e amici? A questo punto, meglio lasciare la parola a Dante: «Tanto mi parver sùbiti e accorti /e l’uno e l’altro coro a dicer 'Amme!' /che ben mostrar disio de’ corpi morti; /forse non pur per lor, ma per le mamme, /per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme». ( Paradiso XIV, 61-66». Qualcuno potrebbe dire: «Troppo bello per essere vero!». Eppure, esattamente perché è così bello, è difficile che non sia vero.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: