domenica 20 febbraio 2022
Le sue tesi sulla comprensione di Dio, mai cristallizzata ma legata all’evoluzione delle capacità cognitive umane, furono condannate ma appaiono oggi intuizioni dense di frutti
Don Carlo Molari

Don Carlo Molari

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La morte l’ha colto ieri, a novantatré anni, a Cesena, sua città natale, nella Casa di riposo “Don Baronio”. Con l’addio di Carlo Molari – «uomo libero dalla fede viva e dall’intelligenza sempre in ricerca» (così ieri lo ha definito l’arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte) – se ne va una delle figure più affascinanti nel nostro panorama teologico. Testimone di un “fare teologia” non come “mestiere”, ma – parole sue – come «componente di identità personale», «ragione di tutta una vita». E testimone di un pensiero lontano da rassicuranti certezze, spinto piuttosto a concentrarsi sul presente, guardando a Gesù di Nazareth, nella convinzione che l’azione di Dio si esprime nella storia umana quando s’incarna in essa, diventando relazione.

Prete e studioso dall’interrogazione mai spenta sul mistero dell’esistenza (e grande conoscitore di Teilhard de Chardin), Molari era stato ordinato sacerdote nel 1952. Si era laureato in teologia dogmatica e in utroque iure alla Lateranense, lì insegnando dal 1955 al 1968, continuando poi l’insegnamento all’Urbaniana (1962-1978) e alla Gregoriana (1966-1976). Al periodo 1961-1968 risale poi l’incarico di aiutante di studio presso la Congregazione per la dottrina della fede.

E proprio dai vertici dell’ex Sant’Uffizio, a lui – che nel 1972 era diventato anche segretario dell’Ati, l’Associazione Teologica Italiana – nel 1977 venne chiesto di lasciare l’insegnamento: il suo libro La fede e il suo linguaggio (Cittadella editrice), non era ritenuto conforme alla dottrina: sotto accusa le sue tesi sulla comprensione di Dio, mai cristallizzata, ma legata all’evoluzione delle capacità cognitive umane. In più pile di segnalazioni per affermazioni fatte in pubblico. Rivelatesi inutili le difese, la decisione, a cinquant’anni, di riscattare gli anni delle lauree e ritirarsi in pensione.

In realtà Molari ha continuato a lavorare senza sosta e sino a oggi. A scrivere (i libri più recenti sono dell’anno scorso per i tipi di Gabrielli, Il cammino spirituale del cristiano e Espiazione), a tenere conferenze, lezioni, esercizi spirituali in giro per l’Italia, svolgendo un’intensa attività pastorale all’Istituto San Leone Magno dei Maristi, a Roma, dove ha fatto da padre spirituale a più generazioni sino a dieci anni fa.

Insomma una biografia costellata di tappe in differenti contesti, o in tante famiglie: la sua, il San Leone, la Fuci, l’Ati, il Sae, Ore Undici, la Cittadella, Camaldoli... Ma si potrebbe riavvolgere la pellicola della sua vita sostando sulla cesura del Concilio Vaticano II e su quelle che lui stesso – in un contributo per Essere teologi oggi (Marietti) – definì le sue tre conversioni: quella filosofica, debitrice verso la cultura contemporanea nelle sue letture della natura; quella teologica, ritenuta troppo dipendente da quella filosofica, all’origine dei moniti che gli hanno cambiato il futuro; quella spirituale, che l’ha portato all’attenzione per i pluralismi religiosi.

Un percorso di vita per taluni aspetti non unico. Viene in mente, ad esempio, Ambrogio Valsecchi e il libro di Federico Ferrari Una teologia discordante (Morcelliana): un profilo apparentabile, anche oltre certe analisi sul valore salvifico della Croce. Uomini di pensiero che al centro delle loro ricerche, hanno dato spazio come pochi all’«incidenza in teologia della coscienza storica».

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