Un nuovo patto oltre il mercato: cos'è l'economia della sopravvivenza

L’estrattivismo globale ha portato il pianeta al limite. Oggi, solo un sistema fondato su giustizia, solidarietà e cura del comune, può contrastare il collasso sociale
September 9, 2025
Un nuovo patto oltre il mercato: cos'è l'economia della sopravvivenza
Riccardo Lennart Niels Mayer / Alamy Stock Photo |
Anticipiamo il contenuto dell'incontro che Gaël Giraud, economista e gesuita francese tra i maggiori interpreti dell’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco, terrà oggi alle 18.30 alla Fondazione Feltrinelli a Milano - delle “Salvatore Veca Lectures 2025”. I temi toccati sono al centro del suo nuovo libro Costruire un mondo comune (Piemme/LEV).
L’economia sociale e solidale (ESS) si è sviluppata, in diversi contesti storici e geografici, come un tentativo di rispondere a tre constatazioni che oggi appaiono ancora più urgenti. La prima è l’insostenibilità ecologica e sociale dell’estrativismo: un modello che si nutre di uno sfruttamento senza fine delle risorse naturali e umane, al prezzo della degradazione degli ecosistemi e di disuguaglianze crescenti. La compagnia di riassicurazione svizzera Swiss Re ha già lanciato l’allarme: se continuiamo a non fare nulla contro il cambiamento climatico, potremmo raggiungere un riscaldamento superiore a +3 gradi già nel 2050 (ben oltre, dunque, l’Accordo di Parigi del 2015) e l’economia mondiale potrebbe perdere più del 15% del suo Pil ogni anno. È come se avessimo l’equivalente di una pandemia di Covid ogni anno. La maggior parte delle risorse vitali senza le quali l’umanità non può sopravvivere sono oggi minacciate. Abbiamo distrutto circa il 17-18% della foresta amazzonica per estrarne legno, risorse minerarie o per l’agricoltura. Ora, oltre il 25% - gli ingegneri forestali ci avvertono - la foresta si trasformerà in savana in pochi decenni. Senza il polmone che costituisce l’Amazzonia, l’intero clima terrestre si avvierà verso un riscaldamento superiore a +5 gradi e il ciclo dell’acqua dolce sarà profondamente perturbato. E sappiamo che, già nel 2030, quasi il 40% della domanda mondiale di acqua dolce non sarà soddisfatta. Secondo il World Resource Institute, in Italia, nel 2040, si potrebbe perdere più del 50% dell’accesso all’acqua dolce di cui disponiamo oggi. È difficile immaginare come potremo sopravvivere in Puglia o in Calabria (per fare solo un esempio) tra soli 15 anni.
Sul fronte delle disuguaglianze, la loro esplosione è purtroppo ben documentata. L’origine di questo fenomeno (che risale all’inizio degli anni Ottanta) è duplice: il settore finanziario e il mercato immobiliare. Le bolle speculative che nascono, si gonfiano e implodono su questi due mercati, sono i luoghi principali in cui si formano disuguaglianze di reddito insostenibili per la nostra coesione sociale.
La terza constatazione è l’indebolimento delle istituzioni democratiche stesse, minate da questa esplosione delle disuguaglianze, dalle logiche della finanziarizzazione globalizzata, dalle delocalizzazioni massive delle attività e dalla perdita di sovranità economica. Infatti, si allarga il divario approssimativamente tra un terzo di una generazione di europei occidentali che consegue studi superiori, un terzo che ha il livello secondario e un terzo che ha il livello primario: il terzo “istruito superiore” dispone di tutti i poteri (politico, economico, finanziario, mediatico…) e non sa più cosa vivono gli altri due terzi. Queste due fasce della popolazione faticano ormai a sperimentare un destino comune. Chi ha il potere non comprende quindi più perché dovrebbe condividerlo con gli altri, che gli sono estranei. Da qui il successo dell’estrema destra in Occidente: essa costituisce una strategia vincente per, facendo leva sulla rabbia di tutte le vittime della globalizzazione mercantile ineguale, promuovere forme di governo che, fondamentalmente, negano la democrazia.
In questo quadro, le esperienze di cooperative, mutue, associazioni e iniziative cittadine appaiono come laboratori di resistenza, ma anche come luoghi di sperimentazione di altre razionalità economiche. La loro forza risiede nella priorità data all’utilità sociale piuttosto che al rendimento azionario, nel radicamento territoriale e nella partecipazione attiva delle comunità. Soprattutto, queste esperienze offrono l’occasione di superare diversi mali che abbiamo appena diagnosticato: permettono ai diversi strati della popolazione di incontrarsi; di imparare di nuovo a condividere un destino comune, limitando le disuguaglianze e offrendo un quadro nel quale si possa inventare il proprio “stile”, cioè il proprio rapporto con il mondo. Uno stile sobrio, rispettoso del pianeta, ospitale verso un’umanità diversificata.
Tuttavia, l’ESS non può essere idealizzata. I suoi margini di manovra restano condizionati dall’egemonia dei mercati finanziari e dai rapporti di potere geopolitici. Una cooperativa di produzione agricola sostenibile non può da sola invertire le dinamiche mondiali di speculazione sulle materie prime. Una mutua di credito solidale deve confrontarsi con regolamentazioni bancarie forgiate da istituzioni di vigilanza in parte assoggettate ai grandi attori privati. Le economie solidali si sviluppano dunque in una tensione permanente: proporre alternative concrete, ma rischiare strumentalizzazione, marginalizzazione, o addirittura cooptazione da parte delle logiche dominanti.
Come pensare allora una rifondazione su scala più ampia? Tre direzioni sembrano decisive. La prima è la protezione dei beni comuni – acqua, foreste, clima, salute, saperi… – contro la loro mercificazione. È la risposta principale alla privatizzazione del mondo. Essa è al tempo stesso nuova (si pensi ai commons digitali) e molto antica (la res communis del diritto romano lo testimonia). In Italia, comunità energetiche imparano a gestire le energie rinnovabili come beni comuni. Allo stesso modo, il grande giurista Stefano Rodotà aveva proposto di inserire nella Costituzione italiana il principio che l’acqua non è una risorsa privata ma un bene comune. L’Italia non lo ha fatto, ma la Slovenia si è unita al gruppo dei 15 Paesi al mondo che lo hanno fatto. La promozione dei beni comuni esige una società civile viva e inventiva, come è il caso in Italia. Esige anche istituzioni pubbliche capaci di proteggere i beni comuni dalla tentazione di una reprivatizzazione subdola.
La seconda direzione promettente, a mio avviso, è la rilocalizzazione selettiva delle attività produttive: non un ripiegamento nazionalista, ma una riorganizzazione delle catene del valore per ridurre la dipendenza dai flussi lunghi, rafforzare i circuiti brevi e dare potere alle collettività locali. Ciò implica una riflessione di fondo sulla nostra dipendenza dai minerali, in Europa, e sulla necessità di inventare un nuovo tipo di industria low-tech che produca beni manifatturieri parsimoniosi in acqua ed energia, facili da riparare e da riciclare. È l’esatto contrario dell’immaginario della tecnologia californiana. Ma non c’è salvezza per l’Europa senza l’invenzione di questo nuovo tipo di industria. Il nord Italia ha la cultura industriale che gli permette di portare a termine questa invenzione — a condizione che i suoi migliori imprenditori siano sostenuti e resistano alla tentazione di delocalizzare negli Stati Uniti.
La terza è l’invenzione di meccanismi internazionali di solidarietà e giustizia economica che rompano con la riattivazione degli schemi coloniali: la “corsa alle risorse” verdi o fossili non può continuare sacrificando i popoli del Sud. L’esperienza di DNDi (Drugs for Neglected Disease) in Svizzera dimostra che è possibile: si tratta di una piattaforma internazionale in cui Big Pharma collabora con Stati sovrani e Ong per produrre terapie contro malattie trascurate dal settore privato (perché non redditizie). Ciò passa anche, credo, attraverso il finanziamento e la realizzazione della Grande Muraglia Verde sul versante sud del Sahara. Questo immenso progetto agricolo sarebbe il modo migliore per frenare la desertificazione del Sahel e offrire condizioni di vita dignitose alla gioventù saheliana. Abbiamo senz’altro i mezzi finanziari per sostenerlo.
Queste direzioni implicano anche la resistenza alla crescente riconversione dei nostri sistemi produttivi a fini militari. La guerra rischia di diventare un motore di crescita per l’industria degli armamenti e per la ricerca, a scapito degli investimenti nella salute, nell’educazione e nella transizione energetica. E a scapito della democrazia. Rompere con questa logica richiede uno sforzo politico importante, che non può provenire solo dalla società civile: chiama a coalizioni tra movimenti sociali, istituzioni pubbliche e attori economici responsabili.

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