Tolkien, la scrittura come mistero

Giuseppe Pezzini ha studiato il processo creativo dello scrittore inglese: l’autore non inventa nomi e storie ma questi affiorano nella mente e devono essere portati alla luce
August 29, 2025
Tolkien, la scrittura come mistero
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Un recente saggio di Giuseppe Pezzini, docente di Oxford che si dedica con pari interesse allo studio del latino e a quello delle opere di Tolkien, getta nuova luce sul processo creativo che regola l’origine dei capolavori del Professore. Si intitola Tolkien and the Mystery of Literary Creation (Cambridge University Press, pagine 430, euro 36,40): sei capitoli che affrontano altrettanti temi fondamentali per illustrare riflessioni e auto-esegesi di Tolkien, con un epilogo in forma di commento all’Ainulindalë, la storia della creazione del mondo che apre il capolavoro postumo, Il Silmarillion. Il mistero della creazione letteraria, quindi. Meglio ancora, si direbbe, la creazione letteraria come mistero, la scrittura come disvelamento e scoperta, così come emerge dalle opere, dai saggi e dalle lettere del creatore della Terra di Mezzo.
In principio erano i nomi. E con i nomi i personaggi e poi la loro storia. Come nel caso dei misteriosi “gatti della regina Berúthiel”, da cui prende le mosse il primo capitolo. Vengono citati da Aragorn e Tolkien inizialmente ammetterà di non saperne nulla o quasi, salvo poi provare in un secondo momento ad abbozzarne – o meglio, a conoscerne – la storia, almeno per sommi capi. Perché questo, per Tolkien, deve fare l’autore: cercare di scoprire quanto più possibile su nomi e profili che improvvisamente gli si presentano chiedendo di essere conosciuti. Il caso degli hobbit è piuttosto eclatante. “In un buco nel terreno viveva uno hobbit” è il celebre incipit del primo successo di Tolkien, appuntato mentre correggeva gli elaborati di un esame, senza sapere minimamente cosa fossero gli hobbit, poi destinati ad avere un ruolo tutt’altro che secondario nei suoi lavori. Nomi che affiorano nelle mente e affascinano per il loro suono, prima ancora che per il loro significato: per Tolkien, infatti, la sua opera è essenzialmente “un saggio di estetica linguistica” e anche per questo motivo l’invenzione delle lingue è centrale nelle sue creazioni letterarie e precede il racconto stesso.
Dunque, più che di invenzione si deve parlare di scoperta che segue un momento epifanico, fra “inconsapevolezza” e “sogno”, accompagnato da meraviglia e stupore, le stesse sensazioni che suscita la contemplazione del creato. C’è un legame stretto, infatti, fra creazione primaria (la realtà) e secondaria (il racconto), una relazione che si alimenta di bellezza e verità. Il sub-creatore (l’autore) continua l’opera del Creatore, governando la sottile tensione fra disvelamento e nascondimento. Il racconto, in qualche modo, è già lì, come le statue nascoste nel blocco di marmo, secondo la concezione michelangiolesca opportunamente richiamata da Pezzini.
Ecco quindi che l’impiego di una cornice metanarrativa – l’idea che Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli siano basati sul Libro Rosso dei Confini Occidentali, compilato da Bilbo, Frodo e Sam – è funzionale a garantire l’unità (nella diversità) dei due principali lavori pubblicati in vita, spiega le variazioni di stile e prospettive (riconducibili alle diverse “voci” narranti dell’originale) rendendo il racconto più credibile, ma soprattutto ridefinisce il ruolo del sub-creatore primario, che è chiamato a riscrivere, in maniera necessariamente “approssimativa”, quanto già scritto “da qualcun altro”.
Su tutto, poi, aleggia una presenza discreta. Siamo davanti al paradosso di un racconto intriso di religiosità in cui la divinità non si manifesta mai, pur essendo presente. Sembra quasi che l’Uno, Eru/Iluvatar, e con lui i Valar, entità angeliche, siano stati deliberatamente rimossi. Pezzini mostra come questa rimozione solo apparente sia da ricondurre tanto alla poetica del nascondimento quanto al desiderio della divinità di garantire uno spazio alla libertà e permettere che a indirizzare concretamente la storia sia piuttosto chi sembra “sconosciuto e debole”.
A questa presenza silenziosa si collega, nel mondo primario, anche la consapevolezza da parte dell’autore che l’opera, in definitiva, venga dall’unica Persona “mai assente e mai nominata”, che governa tanto il mondo primario quanto quello secondario. L’autore Tolkien è quindi chiamato a una “morte” – nell’accezione barthesiana – per poi risorgere e farsi strumento. Deve rinunciare al desiderio di controllo sull’opera e sul suo significato e mettersi piuttosto al servizio della storia, lasciando che lo conduca in universi narrativi inattesi e sconosciuti per (ri)scrivere un racconto “pieno di vita” e in qualche modo profetico.
Sono questi solo alcuni fra i suggestivi temi discussi da Pezzini, cui va riconosciuto il merito di aver messo bene in luce, con un saggio estremamente accurato e piacevole, la profondità dell’opera di Tolkien e la sua complessa genesi regolata da precisi criteri estetici. La speranza che accompagna la pubblicazione di questo importante contributo – di sicuro impatto nella Tolkien scholarship ma accessibile anche agli appassionati – è che i tempi siano davvero maturi, magari persino in Italia, per rivalutare definitivamente la qualità letteraria del corpus tolkieniano.

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