Theodor Kallifatides: «La pace è un lavoro che dura tutta la vita»

In “Contadini e signori” l'autore greco-svedese racconta la Seconda guerra mondiale da un villaggio contadino del Peloponneso, tra ironia, tragedia e memoria collettiva
September 12, 2025
Theodor Kallifatides: «La pace è un lavoro che dura tutta la vita»
Alamy | Lo scrittore Theodor Kallifatides
Con Contadini e signori (Crocetti, pagine 264, euro 18,00), Theodor Kallifatides riporta alla luce uno dei grandi affreschi della narrativa europea del secondo Novecento. Primo capitolo di una trilogia scritta negli anni Settanta e mai prima d’ora tradotta in italiano, il romanzo racconta la vita di un piccolo villaggio del Peloponneso durante l’occupazione italiana e tedesca, attraverso uno sguardo corale che intreccia tragedia e ironia, memoria e invenzione. Nato in Grecia nel 1938 ed emigrato in Svezia nel 1964, Kallifatides è autore di oltre quaranta libri tra narrativa, poesia e saggistica, tradotti in molte lingue, e ha ricevuto numerosi premi nei due Paesi che rappresentano le sue radici. Con questa trilogia – già accolta come un capolavoro in Spagna, dove nel 2024 ha ottenuto il premio “TodosTusLibros” dei librai – lo scrittore greco-svedese ci consegna qui non solo un documento letterario potente, ma anche una riflessione universale sulla violenza, la paura, la resistenza e la capacità di raccontare la vita senza retorica e con leggerezza. In vista del Salone del Libro di Torino 2026, che avrà la Grecia come Paese ospite, Kallifatides qui rimette al centro una scena letteraria, parlandoci di memoria e ironia, villaggi che diventano metafore del mondo e soprattutto di un’idea di letteratura che resta, oggi come ieri, necessaria: «Non riesco a immaginare - ci dice - la mia vita senza letteratura».
In particolare, tra le contraddizioni di cui scrive nel libro, vi è quella tra contadini e padroni, occupanti e gente comune, che sono forti e complesse; il suo libro parla infatti di violenza e perdita, ma c’è anche un lato ironico e riesce a trovare un equilibrio delicato tra commedia e tragedia, senza cadere nella retorica o nel cinismo: «Forse - spiega - mi ha aiutato il tempo che è passato, e anche il fatto di aver scritto il libro in una lingua diversa da quella di mia madre. Ma anche una specie di tradizione locale. Nel mio paese la gente parlava così. Mio nonno, un narratore nato, parlava così. Anche mia madre. Niente lacrime senza risate». Diversi critici hanno paragonato il suo “tono” di voce a quello del film di Benigni La vita è bella, dove l’umorismo diventa un modo per sopravvivere al dolore. L’ironia, quindi, usata come difesa, come strumento di verità: «Sono un grande ammiratore di Benigni. Ho apprezzato molto i suoi film. Credo che sia io che Benigni lavoriamo con un modo tradizionale di raccontare storie, con la tradizione e la mentalità mediterranea. Non l’abbiamo inventata noi. L’abbiamo ereditata».
Il villaggio di Ialos, di cui scrive Kallifatides, è tipico e universale allo stesso tempo. Quasi un personaggio del libro, ma ci racconta, «non ho dovuto inventare nulla, perché è il mio villaggio, con alcuni adattamenti necessari per evitare conflitti. Non volevo ferire nessuno. Volevo solo raccontare cosa era successo e come. Era la seconda guerra mondiale; c’era l’esercito tedesco, quello italiano e gli abitanti del villaggio». Molti dei suoi personaggi sono crudeli, insicuri, spaventati dal cambiamento. È un riflesso della Grecia di quegli anni, ma descrive insieme anche un tratto universale di mondi piccoli e chiusi: «Oggi - continua Kallifatides - vediamo la stessa cosa in diverse altre parti del mondo. Ovunque si trovano persone che considerano qualsiasi cambiamento come qualcosa di terribile. È davvero sorprendente che siamo così. Sembra che non vogliamo imparare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. È vero per la maggior parte di noi, in misura diversa, da una lieve indifferenza a un crudele fanatismo». Il suo romanzo poi presenta figure quasi archetipiche: il sindaco, il prete, il pazzo del villaggio. Personaggi utilizzati quasi come elementi per decostruire il “romanzo di paese”, o forse per sfruttarne il potere narrativo: «Non so se ho pensato in questi termini quando ho scritto il libro. Volevo scrivere nel modo più efficace possibile. Le persone che descrivo erano persone reali, ma avevano anche una certa funzione sociale che era tradizionale e imponeva un certo modo di essere. Non le ho inventate io. Lo ha fatto la società. Un villaggio greco, come un villaggio italiano, non è solo un gruppo di case intorno a una chiesa. È un mondo, e io volevo descrivere quel mondo».
In definitiva, la trilogia è un progetto che si può considerare a metà tra un “memoriale” e un “romanzo”, ma anche qualcosa in più, come racconta Kallifatides: «Avevo diciotto anni quando ho visualizzato quel libro per la prima volta. L’ho visualizzato in un pomeriggio piovoso sotto il baldacchino di un cinema. Mi sono detto che dovevo scriverlo, ma non sapevo ancora come. A venticinque anni sono emigrato in Svezia. Dieci anni dopo ho finalmente scritto questa trilogia in svedese, probabilmente perché non riuscivo a scriverla in greco. Era troppo doloroso scriverla in greco. Avevo bisogno della distanza di una lingua diversa». Un libro doloroso, di memorie, profondamente radicato nella propria lingua attraverso un’altra lingua: «La nostra lingua materna in fondo è la nostra prima prigione, ma anche una strada verso la libertà. Tuttavia la libertà è difficile e di solito restiamo nella prigione dove sappiamo come comportarci».
Il libro, tra i suoi punti di forza, mostra come la violenza spesso nasca dalla stupidità, dalla paura e dalla chiusura mentale: «Tutto questo preferisco considerarlo una critica sociale. La natura umana è qualcosa di cui non so molto. Forse tutti noi abbiamo dentro di noi il desiderio di uccidere altre persone, ma la maggior parte di noi non lo fa, a meno che non creda che sia la cosa giusta da fare. È questa convinzione ad essere atroce, non la nostra natura. Poche persone nascono assassine, ma la maggior parte di noi può diventarlo». A partire da questo spunto è interessante approfondire cosa ci dice poi questo libro sulle guerre di ieri, e in che modo può essere rilevante per la storia delle guerre di oggi: «Nessuna guerra - spiega Kallifatides - ha mai risolto alcun problema senza crearne di nuovi. Prendiamo ad esempio la seconda guerra mondiale. Doveva salvarci dalla tirannia del nazismo. Ora il nazismo è di nuovo tra noi. Come dice Omero: la guerra è la fonte di tutte le lacrime. I problemi che abbiamo possono essere risolti senza ricorrere alla guerra. Direi che i problemi che abbiamo, come la povertà, la disuguaglianza, l’ingiustizia, la misoginia, l’ambiente, possono essere risolti solo in pace. Ma forse non lo capiremo mai». Questo libro tratta infine temi come la memoria, l’identità, lo sradicamento, cari all’autore, che ne racconta la genesi: «Ricordo che una volta ho discusso con un amico che non conosceva il mito di Sisifo. Allora gli ho spiegato che Sisifo doveva trasportare una pietra su per una collina, ma poi la pietra ricadeva giù e lui doveva ricominciare da capo. Il mio amico è rimasto in silenzio per un po’. Poi ha detto: “Beh, qual era il problema? Aveva un lavoro per tutta la vita”. Lo stesso vale per la pace. Abbiamo un lavoro per tutta la vita». Cosa ci dice allora questo libro sul potere, sia inteso come potere dell’individuo che come forza della collettività? «Nessun individuo - conclude Kallifatides - ha più potere di quello che gli conferisce la collettività. Ecco perché la democrazia è l’unico stato di cose ragionevole e allo stesso tempo il più vulnerabile».

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