La difficile eredità di Gehry, amata odiata star dell'architettura

L'architetto è scomparso ieri all'età di 96 anni. Con il Guggenheim Museum di Bilbao ha creato un nuovo immaginario fantastico e una schiera di epigoni.
December 6, 2025
La difficile eredità di Gehry, amata odiata star dell'architettura
Il Guggenheim Museum di Bilbao, concluso nel 1997, il capolavoro di Frank O. Gerhy / WikiCommons
Con la morte di Frank O. Gehry, avvenuta ieri a Los Angeles, all’età di 96 anni, scompare uno dei protagonisti, forse il principale, di una stagione che ha spinto l’architettura a presentarsi come un gesto globale. La sua formazione – dall’infanzia a Toronto, dove era nato il 28 febbraio del 1929, ai successivi studi negli Stati Uniti tra California e, brevemente, ad Harvard – costruì le basi di una ricerca che negli anni Ottanta, riconosciuta anche dal Pritzker Prize (1989), avrebbe acquisito risonanza internazionale. Da quella fase di maturazione prese forma un’epoca che lui stesso aveva contribuito a definire con i suoi edifici composti di forme libere, dei volumi metallici che sembrano sfidare ogni logica costruttiva, della fiducia (per alcuni dell’illusione) che un edificio potesse modificare il destino economico e simbolico di una città. La svolta del Guggenheim Museum Bilbao, inaugurato nel 1997, senza dubbio non solo il suo capolavoro ma uno dei grandi capolavori dell’intera storia dell’architettura, frutto di una ricerca già maturata in opere come il Frederick Weisman Museum di Minneapolis (1993), è rimasta un marchio indelebile ma anche un fardello: un museo che diventa attrattore planetario e insieme un paradigma urbanistico che rilanciano una città in crisi. Da allora il “Bilbao effect” è entrato nel lessico della politica culturale, molto oltre il suo significato architettonico. Ma quell’etichetta, oggi, chiede di essere riletta con distacco: da una parte quel modello, in larga parte, si è dimostrato irreplicabile, dall’altra in assenza di una programmazione culturale (ed economica) adeguata, come invece a Bilbao è stata fatta, un nuovo museo è solo un fuoco di paglia. Ma tutto questo, a ben vedere, non è un problema dell’architetto.
Pur essendo la più nota tra le archistar, Gehry ha sempre rifiutato l’idea di essere l’architetto dello spettacolo. «Non progetto per essere notato», dichiarò in un’intervista degli anni Novanta, respingendo la lettura del suo lavoro in chiave puramente iconica. Per lui la forma non era un esercizio di stile né un’operazione di branding urbano, ma un processo che nasceva da un gesto primario e persino dallo scarto: un foglio stropicciato, un modellino di cartone, un’increspatura che diventava intuizione spaziale. Già nella sua abitazione di Santa Monica (1978), uno dei progetti più autobiografici, sperimentò l’uso di materiali poveri e frammentati come base di un linguaggio che avrebbe poi portato a maturazione. Nel suo studio di Los Angeles (documentato ad esempio nel film di Sydney Pollack Frank Gehry – Creatore di sogni, del 2005) la manualità del lavoro preliminare era fondamentale, con i modelli che si stratificavano l’uno sull’altro mentre veniva indagata ogni possibilità del materiale. La sua architettura – dalla Casa danzante di Praga alla Walt Disney Concert Hall di Los Angeles, dalla Fondation Louis Vuitton di Parigi ai complessi residenziali di New York – prendeva forma solo dopo un percorso lungo, sperimentale, spesso contraddittorio.
È uno dei paradossi di Gehry: essere stato allo stesso tempo un artigiano dello spazio e il simbolo della rivoluzione digitale. Per disegnare le sue forme complesse, impossibili da realizzare con i programmi tradizionali, l’architetto ha fondato Gehry Technologies che ha sviluppato uno strumento basato sul software CATIA chiamato Digital Project. Senza questo, molte architettura degli anni Duemila, dal decostruttivismo agli esperimenti parametrici, e non solo di Gehry, non avrebbe potuto esistere. Anche il Museum of Pop Culture di Seattle (2000) deve a queste tecnologie la sua complessa topografia di volumi cromatici. Eppure Gehry non si è mai definito un progettista “digitale”. Il computer era un mezzo per tradurre in progetto, non per generare forme. «La tecnologia è solo uno strumento. Non risolve nulla se non c’è l’idea», spiegò nel 2001 durante una lectio alla University of Toronto.
Questa insistenza sul processo manuale ha anche una radice biografica. Gehry ha spesso riconosciuto come la sua poetica fosse nutrita dalle fratture dell’infanzia: la precarietà economica della famiglia a Toronto, dove il padre gestiva una ferramenta, il senso di marginalità vissuto negli anni della scuola, segnati da episodi di antisemitismo, il legame profondo con la nonna materna, che lo introdusse alla cultura ebraica dell’Europa orientale. Da lei imparò a costruire piccoli oggetti con materiali poveri e maturò una sensibilità per le forme primordiali, come l’archetipo del pesce, che ritorna regolarmente nel suo immaginario, a partire dal Guggenheim di Bilbao, con le sue squame di titanio che ne fanno un corpo vivo e continuamente cangiante nella luce: una vera e propria figura della memoria che lo accompagna sin da bambino. Dopo gli studi, gli anni di apprendistato negli Stati Uniti – anche nello studio di Victor Gruen, pioniere del mall americano – e il contatto con gli artisti pop della West Coast come Rauschenberg e Oldenburg contribuirono a rafforzare un approccio più vicino al laboratorio che alla composizione accademica. Un approccio che resta valido fino agli ultimi anni, con progetti come la Cleveland Clinic Lou Ruvo Center for Brain Health a Las Vegas (2010) o il Dr. Chau Chak Wing Building di Sydney (2015) che mettono in crisi la consistenza stessa dell’architettura, se non la sua idea, con lamiere abbattute dal vento o muri che implodono come se fossero di cera.
Se la sua fama è stata planetaria, ben al di là della cerchia degli appassionati, allo stesso tempo non è stato amatissimo dai suoi colleghi, al pari della sua collega Zaha Hadid. Una parte della critica gli ha rimproverato un’eccessiva autonomia della forma rispetto alle funzioni dell’edificio, il disinteresse a dialogare con il contesto, il rischio di scivolare da una architettura scultora (è evidente la matrice cubista, futurista ed espressionista) a una architettura-oggetto se non esclusivamente scenografica. La sua eredità si presenta oggi complessa. Da un lato Gehry ha ampliato le possibilità formali e tecniche dell’architettura contemporanea, dimostrando che la materia e lo spazio possono essere piegati, sottoposti a torsione, e spinti fino a diventare emozione. Dall’altro lato, anche a causa di una deriva manierista, forse inevitabile, dei suoi stessi lavori, ha generato una pletora di architetti (e di amministrazioni) che lo hanno scimmiottato a partire dalla superficie delle forme senza coglierne la natura, producendo così un’architettura gratuitamente stravagante. Resta in lui la capacità di restituire allo spazio e alla sua esperienza una qualità autenticamente fantastica; la volontà di dare forma alla complessità del presente senza rifugiarsi nella neutralità; il coraggio di esporsi al rischio dell’eccesso per evitare l’indifferenza. Senza dubbio, la fase ascensionale del lavoro di Gehry incarna al meglio un tempo economicamente esuberante e politicamente entusiasta, desideroso di scrollarsi di dosso un secolo che si pretendeva essere stato breve. In una contemporaneità sgretolata da crisi plurime e in cui, sotto il profilo progettuale, le parole chiave sono sostenibilità e rigenerazione, rischia di apparire tanto affascinante quanto inattuale.

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