Baddiel: «Io, ateo, comprendo il desiderio di Dio»
Ne “Il desiderio di Dio”, David Baddiel riflette sulla tensione universale verso il divino, mostrando un bisogno umano profondo: dare un senso alla morte, al caos e alla fragilità dell’esistenza

Con Il desiderio di Dio. Chi non vorrebbe che esistesse? (Altrecose, traduzione di Fabio Cremonesi, pagine 128, euro 17,00), David Baddiel, scrittore e autore comico britannico, affronta un paradosso della spiritualità contemporanea: non tanto se Dio esista, quanto perché sentiamo che dovrebbe esistere. L’autore parte da una constatazione che attraversa credenti e non credenti, riflettendo sul fatto che dietro ogni teologia, ogni rituale e perfino ogni ateismo, c’è un desiderio che riguarda la paura della morte, la ricerca di significato e la fragilità umana. Dichiaratamente ateo, ma lontano dall’ateismo militante, Baddiel dice che sarebbe felicissimo se Dio esistesse, e che ha passato un sacco di tempo a fantasticare su quanto sarebbe meglio sapere che in cielo c’è un papà supereroe in grado di scacciare la morte. Ma sfortunatamente non c’è: Dio non esiste. O almeno, è la conclusione a cui è arrivato lui. Con una formazione comica e uno sguardo narrativo, Baddiel racconta come il desiderio di Dio nasca dalla consapevolezza della mortalità, dal bisogno di una storia che ci salvi dal caos, dalla necessità di una risata per avvicinarci al divino. Con ironia e capacità di mescolare aneddoti personali e ragionamenti, non vuole demolire la fede, ma scandagliarne le radici.
Nel suo saggio analizza il passaggio che va da “Dio esiste” a “Dio dovrebbe esistere”. Cosa ci dice questo della nostra epoca e della condizione spirituale dell’uomo contemporaneo?
«Il punto centrale di questo passaggio è il desiderio, la tensione verso qualcosa. Parlo dell’idea di questa cosa salvifica, questa cosa che dà significato alla nostra vita e che ci impedisce di preoccuparci della morte, e che quindi dovrebbe esistere; c’è stato un tempo in cui si presumeva che esistesse, ma ora c’è la sensazione che dovrebbe esistere. In fondo, però, penso sia sempre stato così. Anche quando le persone credevano che Dio fosse una realtà, derivava comunque dal desiderio che lo fosse. Quindi, anche quando in pochi mettevano in discussione l’esistenza di Dio, la genesi di Dio, la creazione di Dio – qualunque tipo di Dio – derivava dallo stesso senso di fragilità umana che crea il desiderio di porvi rimedio».
E Dio stesso il rimedio?
«Viviamo in una situazione in cui molte cose della nostra vita riguardano il modo in cui immaginiamo il mondo. È molto difficile per chiunque imporre una realtà oggettiva, perché si rischia subito di essere accusati di autoritarismo. La verità personale di chiunque è considerata valida quanto quella di chiunque altro. Ma così la verità oggettiva inizia a non esistere più. Qualunque cosa qualcuno ritenga debba esistere, si rifiuta di metterla in discussione. Molte delle discussioni infinite in rete e della rabbia nel mondo moderno derivano da questo atteggiamento. Credo che questo abbia anche una componente religiosa: la religione è, in fondo, il tentativo di immaginare il mondo come lo si desidera».
Nel libro cita il rapporto che intercorre tra il nostro modo di intendere e vivere la mortalità e il desiderio di Dio. Per lei quindi la mortalità è all’origine della religione?
«Penso che sia un punto centrale, ma non voglio essere semplicistico e dire che l’unica ragione per cui crediamo in Dio sia la paura della morte. Penso che sia la consapevolezza della morte a renderci diversi dagli animali. Gli animali non sanno davvero che moriranno, per quanto ne sappiamo. La consapevolezza della morte crea paura, certo, ma anche un senso di possibile insignificanza: l’idea che le nostre vite non abbiano una narrazione adeguata. Non è solo: “Ho paura di morire, quindi devo creare un aldilà”. È anche la storia che Dio ci offre, che ci risolve i problemi che la coscienza della morte crea».
Che ruolo ha la fede nella sua vita?
«Diciamo che il motivo per cui parlo molto di queste cose è il presupposto che abbiamo creato Dio per risolvere la paura. Gesù è una delle incarnazioni più riuscite di questa soluzione. Nei Vangeli si vede un incredibile progresso psicologico: l’idea stessa che Dio sia un uomo è una risposta brillante alle paure che portano al desiderio di Dio. È una questione di empatia: ci porta a credere ci sia un modo per connettersi al divino che permetta di pensare: “Va tutto bene. Sono protetto. C’è una via d’uscita dalla morte”. Gesù, poiché è uomo e soffre come noi, rende tutto questo comprensibile. Quando incarni il divino in un uomo, quello che ottieni è essenzialmente un supereroe. E se guardi ai supereroi e al perché ci piacciono, è perché vogliamo immaginare che le possibilità umane superino tutto. Superman non muore. È invulnerabile. Ed è importante che Superman sia incarnato come uomo. I primi ad avere questa idea furono proprio gli autori dei Vangeli».
Quindi il desiderio di Dio è una forma di fede, ma può essere anche una forma di spiritualità per i non credenti.
«Non so se chi ha davvero fede consideri la propria fede come un prodotto del desiderio. Alcuni sì, altri si infastidiscono a sentirlo, perché sembra mettere in dubbio la realtà di Dio. Nel mio libro, che è un tipo diverso di ateismo – uno che non disprezza il desiderio – accetto che siamo programmati per volere della magia della vita, ovvero qualcosa che supera la materia e suggerisce che la morte non sia la fine. Se accetti il desiderio non come qualcosa di sciocco, ma come parte della nostra natura, allora puoi trovare quella “magia” anche in modi non tradizionali. Io, ad esempio, l’ho trovata nella fisica quantistica, perché offre un modo miracoloso di guardare alla realtà».
Recentemente ho intervistato Javier Cercas a proposito di papa Francesco, e mi ha detto che l’umorismo avvicina le persone alla fede. Lei, che utilizza spesso l’umorismo, cosa ne pensa?
«È molto importante per me, perché sono un comico e la commedia è stata una sorta di salvezza. Quando penso al fatto che non credo in Dio, che la morte sia la fine e che siamo tutti un po’ insignificanti, il modo in cui penso dovremmo considerarlo è: “È divertente”. La maggior parte delle religioni, compreso il cattolicesimo, in passato è stata piuttosto repressiva e poco incline alle battute. Ma gli individui sono felici di scherzare su religione, Dio e morte, è un modo per elaborare. Se mi chiedi cos’è il divino, direi: la risata. È l’unica cosa che abbiamo e che gli animali non hanno. La capacità di ridere, di immaginare il mondo in modo comico, è forse la cosa più vicina che abbiamo al divino».
Per lei oggi stiamo vivendo una nuova fase dell’ateismo?
«Nel libro parlo di come l’ateismo non sia più “di moda”, e credo che i social media c’entrino, perché hanno creato un mondo dove la realtà individuale di ciascuno deve essere rispettata. Come ateo, credo sia vero che Dio non esiste e che lo abbiamo creato dal desiderio, ma credo anche che il desiderio di Dio abbia pure creato realtà culturali e psicologiche fondamentali. E queste cose non vanno mai disprezzate, e anzi rispettate».
© RIPRODUZIONE RISERVATA






