Perché una suora dal Myanmar ci dà una lezione sulla pandemia

December 4, 2021
Un'amica, suora domenicana "della beata Imelda", mi segnala, sul sito della sua Congregazione, una bellissima "lettera dalle missioni" ( bit.ly/3lyNS9T ). È stata pubblicata meno di un mese fa; la firma Lucia Baw Mya, una consorella che si trova in Myanmar e precisamente a Loikaw, Stato di Kayah. Partendo dal colpo di stato del febbraio 2021, descrive come, in conseguenza della guerra civile, il centro di formazione giovanile in cui vive è diventato un campo profughi e quanto l'assistenza materiale e spirituale alle persone accolte e a quelle che si sono rifugiate nella giungla assorba le suore, per le quali «è più facile ottenere i permessi per spostarsi». Ma c'è un passaggio che merita una riflessione in più. «Non solo gli effetti devastanti della guerra civile – scrive suor Lucia – dobbiamo fare i conti anche con il numero crescente di casi di Covid-19. La pandemia, che è arrivata anche da noi, limita i nostri movimenti e le nostre attività. Il centro giovanile non è più soltanto un campo provvisorio per sfollati interni, ma anche un centro di quarantena, e dobbiamo osservare molte precauzioni per preservare la nostra salute e quella degli altri».
Non posso fare a meno di confrontare questa semplice presa d'atto, da parte di una religiosa, di un oggettivo problema sanitario e di ciò che esso richiede a ciascuna comunità – anche se già duramente provata – con certi racconti di asserita "controinformazione" sociosanitaria che circolano in Rete, anche qui in Italia. Convintamente rilanciati e fatti propri, purtroppo, anche da una frazione della blogosfera ecclesiale, con ridondanza di espressioni, come "psicopandemia" e "inoculazione di siero genico" (al posto di "vaccinazione"), che pretendono di negare la realtà che ci circonda. Quella realtà che invece fa dire a suor Lucia: «La vita è difficile, ma è importante continuare a vivere giorno per giorno, rimanendo nella grazia di Dio e ringraziandolo per tutto ciò che abbiamo».

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