Jacobs e Tamberi, la parabola della vita

September 16, 2025
Il primo agosto del 2021 è inciso nella memoria collettiva come un giorno leggendario. In pochi minuti, ai Giochi Olimpici di Tokyo rinviati per il Covid (e per questo davanti a tribune deserte), due ragazzi italiani che fino a quel momento erano noti perlopiù agli appassionati di atletica hanno conosciuto l’apoteosi, la popolarità, la gloria. Gianmarco Tamberi, dopo anni di infortuni che gli avevano tolto i Giochi di Rio, condivideva l’oro del salto in alto con Mutaz Barshim, abbracciandolo in una scena che è diventata simbolo universale di amicizia e di sport. Pochi istanti dopo, Marcell Jacobs sorprendeva il mondo intero, anche lui dopo una storia di sofferenza e di infortuni, correndo i 100 metri più veloci della sua vita, regalando all’Italia la medaglia che nessuno avrebbe mai osato immaginare. Due ori consecutivi, nello stesso stadio, nello stesso pomeriggio: la favola di un’Italia che scopriva, dopo il terribile periodo della pandemia, di poter sognare in grande. Quattro anni dopo quello stesso stadio ha restituito l’altra faccia della medaglia. Ai Mondiali di atletica leggera attualmente in corso a Tokyo, Jacobs è stato eliminato in semifinale, lontano dal lampo che lo aveva incoronato uomo più veloce del pianeta e Tamberi non ha raggiunto la finale. Nessuna gloria, nessuna festa, nessuna fotografia celebrativa. C’è stata solo la realtà dello sport, dura e lineare nella sua semplicità: quella che ti ricorda che non sempre vinci, non sempre riesci a ripeterti, non sempre il corpo e la mente ti seguono come vorresti. Se un poeta, un musicista, un letterato, un artista può realizzare il suo capolavoro indipendentemente dalla propria età, agli sportivi questo dono non è concesso. Marcell ha trent’anni, Gimbo trentatré. Probabilmente i loro corpi, messi alla prova da quegli infortuni di cui parlavo, ne dimostrano qualuno di più. Jacobs ha fatto intuire che forse è arrivato il capolinea, Tamberi non vuole arrendersi, ma il tempo ha chiesto il suo tributo. È facile, quando si osservano le parabole sportive, dimenticare che dietro a ogni trionfo ci sono anni di fatica, cadute e silenzi. È facile dimenticare che lo sport, come la vita, non è una linea retta. Allenarsi, cadere, rialzarsi, vincere, ricominciare da capo, a un giorno accettare di aver dato tutto: questo è il ciclo naturale di ogni atleta e, in fondo, di ogni esistenza. Eppure, c’è qualcosa di struggente e quasi romantico in questa simmetria che unisce ancora una volta Jacobs e Tamberi. Quattro anni fa in cima al mondo, nello stesso stadio, a distanza di pochi minuti; domenica scorsa usciti entrambi dalle rispettive finali, nello stesso stadio, a distanza di poche ore. La loro storia sembra destinata a camminare parallela, nella gloria e nella difficoltà, perché ogni atleta sa che il giorno della fine arriverà, ma nessuno smette di cercare di allungare l’incanto. E ogni gara, anche quella che ti delude, fa parte del cammino che conduce a scoprire chi sei. Jacobs e Tamberi hanno già scritto la pagina più luminosa dello sport italiano, nulla potrà mai cancellarla, ma oggi le luci di Tokyo mostrano il loro volto più crudele e ci ricordano che lo sport non è soltanto il momento in cui alzi le braccia al cielo, ma anche quello in cui devi accettare che è finita. Un giorno parleremo del primo agosto 2021 e del quattordici settembre 2025 come di due capitoli di un’unica storia: quella di due uomini che ci hanno insegnato, con la stessa intensità, la gioia del sogno e la malinconia del risveglio. © riproduzione riservata

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