martedì 9 ottobre 2018
Forse era il quinto mese. Andavo ancora a lavorare, le giornate correvano. Una sera, stanca, appena rientrata mi sdraiai. La quiete della casa vuota. D'improvviso, che cosa? Come, nel ventre, un movimento minimo e leggero, un frullio d'ali. Trattenni il respiro. Eccolo di nuovo. Come un passero appena nato, in un nido. «Sei tu?» domandai. E, certa ormai: «Ciao». Rincasò mio marito, corsi alla porta, annunciai trionfante: «L'ho sentito»! Di notte mi svegliavo e stavo tesa a ritrovare quel sussulto delicato, ma ogni settimana più forte. «Dormi?», chiedevo inquieta, se per mezz'ora non avvertivo niente. Un tramestio mi rassicurava. E poi, insonne fino all'alba, andavo pensando a quel figlio che mi si formava dentro. Le braccia, le mani, gli occhi. Gli occhi, quanto complicati devono essere gli occhi da fare. E il cervello? La complessità del cervello - neuroni, serotonina, recettori. Mio Dio, di questo figlio che mi cresce dentro non saprei fare neppure un'unghia. Com' è possibile che da me che non so fare niente nasca un uomo? Vertigine. Un essere sospesi sul vuoto. È un'evidenza, quando aspetti un bambino, che non sei tu che lo fai. Che qualcosa, infinitamente, ti supera. Forse, anche una donna che non ha mai pregato allora prega. Prega un Dio sconosciuto, di cui magari, poi, si scorderà. Perché vada tessendo con mano ferma la sua trama.
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