Vedo alberi e piante e invidio i naturalisti
venerdì 14 febbraio 2020
Con il passare degli anni ammiro sempre più i naturalisti. O meglio, forse invidio la loro vita, le loro frequentazioni, la loro familiarità con ciò che la natura genera. Non dico i poveri animali, con la loro inquietante inquietudine, il loro dividersi in predatori e prede, le loro sofferenze e coazioni, nascita e crescita, malattia, invecchiamento e morte: proprio come noi, ma senza i conforti e le compensazioni della coscienza, della religione, della filosofia, dell'immaginazione, della razionalità autoprotettiva, della creatività artistica. In verità, quella che invidio e ammiro è soprattutto la vita dei botanici. Piante e fiori vivono, ma la loro vita e sensibilità sono lontane dalle nostre. L'immedesimazione di un essere umano con una pianta non è facile. Ma se un'immedesimazione anche minima con un albero o un fiore può verificarsi, allora si prova un profondo, indefinibile senso di pace. Invidio i botanici perché frequentano alberi, cespugli, fiori e immagino che questo dia loro una certa pace, una pazienza delicata e protettiva, la consapevolezza costante che l'intera atmosfera ed ecosfera terrestre deve moltissimo alla vegetazione. Le piante hanno radici nella buia terra, ma crescono andando verso la luce e il calore del sole. Mangiare insalate fa bene, assumere sostanze nutritive e salutari senza perseguitare animali allevati per essere divorati da noi, fa bene anche alla coscienza e al pianeta. So che l'agricoltura intensiva attuale fa un uso criminosamente tossico di pesticidi. Ma quello che avviene nella zootecnia è raccapricciante. Ho fra le mani un libro che rende protagonisti fiori e piante. Si intitola La camelia (Laterza, pagine 176, euro 16) e lo ha scritto, dopo anni di studio, Angela Borghesi, autrice di importanti saggi letterari su Giacomo Debenedetti, Elsa Morante, Anna Maria Ortese e sulla critica letteraria da De Sanctis a Fortini a Steiner e Garboli. Il libro sulla camelia ci insegna che oltre a offrire il tè che beviamo da un paio di secoli, questa pianta appartiene anche alla storia della cultura, della poesia, della musica. Ma pensando al pacifico abbandono alla sorte naturale che hanno le piante, vorrei citare una breve, felicissima poesia di Leopardi, rifacimento di un testo francese che supera la bellezza dell'originale: «Lungi dal proprio ramo,/ Povera foglia frale,/ Dove vai tu? – Dal faggio/ Là dov'io nacqui, mi divise il vento./ Esso, tornando, a volo/ Dal bosco alla campagna,/ Dalla valle mi porta alla montagna./ Seco perpetuamente/ Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro./ Vo dove ogni altra cosa,/ Dove naturalmente/ Va la foglia di rosa,/ E la foglia d'alloro».
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