“Una buona tazza di tè” con George Orwell
lunedì 3 maggio 2021

«Se provate a cercare la voce “tè” sul primo ricettario che vi capita tra le mani è probabile che non la troviate, o che troviate tutt’al più poche righe di vaghe istruzioni che non vi offriranno alcun suggerimento riguardo a una serie di punti fondamentali. Il che è curioso, non solo perché il tè è uno dei pilastri della civiltà di questo paese, come pure di Irlanda, Australia e Nuova Zelanda, ma anche perché il modo migliore di prepararlo è oggetto di un acceso dibattito». Anche parlando del tè, George Orwell stila i suoi “comandamenti”. Nella Fattoria degli animali i sette comandamenti “originali” a cui tutti gli animali erano tenuti a rispettare erano questi: tutto ciò che va su due gambe è nemico; tutto ciò che va su quattro gambe o ha ali è amico; nessun animale vestirà abiti; nessun animale dormirà in un letto; nessun animale berrà alcolici; nessun animale ucciderà un altro animale; tutti gli animali sono uguali. Sappiamo poi com’è finita, con la celebre massima che racchiude il senso di quel lavoro rimasto nella storia della letteratura, insieme a 1984 e il suo Grande Fratello: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Nel caso del tè, la sua «personale ricetta» prevede «undici irrinunciabili passaggi», undici regole «auree», consapevole che, se «su un paio di essi, l’accordo dovrebbe essere pressoché unanime», altri possono risultare «altamente controversi». A cominciare dalla provenienza delle foglie: è preferibile non utilizzare tè cinese, poiché, a differenza di quello indiano (ricordiamo che Orwell nacque a Motihari, in India nel 1903 una famiglia di origini scozzesi, ndr), dopo averlo bevuto non ci si sente «più saggi, più audaci, né più ottimisti». E poi ci sono i movimenti della teiera, che sempre deve muovere verso il bollitore e mai viceversa. Per non parlare del latte, da scremare prima che sia aggiunto, e dello zucchero, assolutamente bandito: «il tè deve essere amaro come amara è la birra».

A deliziarci con Una buona tazza di tè, insieme a George Orwell, sono le Edizioni Henry Beyle, con la pubblicazione (la traduzione è di Susanna Basso) dell’articolo A Nice Cup of Tea tratto da Smothered Under Journalism – 1946. Un volumetto pregevole, come quelli a cui ci ha abituati, viziandoci, Vincenzo Campo, in carta tatami, con diverse sovraccopertine da scegliere, e sei fotografie, applicate a mano, di Ian Berry, René Burri, Bruce Davidson, Elliott Erwitt, Martin Par e Ferdinando Scianna. Una più bella dell’altra. Visioni diverse di ciò che il tè può rappresentare per una persona e una cultura.

Perché l’articolo di Orwell non è solo un “divertissement” su un argomento che può apparire “leggero” rispetto alle sue battaglie contro i totalitarismi e le ingiustizie sociali. Nella nota che accompagna il testo, si ricorda che «quando il 12 gennaio 1946 A Nice Cup of Tea comparve sulle pagine del londinese Evening Standard, il tè, sul territorio britannico, era oggetto di razionamento da quasi sei anni. Dopo aver fissato le quantità consentite di burro, zucchero e bacon, nel luglio 1940 le autorità avevano infatti stabilito in due once a settimana, pari a cinquantasei grammi circa, la dose di foglie di tè riservata a ciascun inglese». Per questo il meticoloso endecalogo di Orwell - che porta con sé il tè della pregiata casa inglese Fortnum & Mason anche durante la sua tormentata partecipazione alla guerra civile spagnola nel 1937 – dà valore a un rito che appartiene alla tavola della tradizione britannica, conservandosi «a suo modo inalterato e trasversale ai tempi e alle categorie, incluse più che mai quelle indigenti». Come per i senzatetto londinesi di cui scriverà nel reportage The Spike datato 1931, firmato ancora con il suo vero nome, Eric Blair: quella robaccia «che erroneamente essi chiamano tè» per loro era linfa di gioia.

Londra, 1972

Londra, 1972 - Ian Berry

Lo scatto di Ian Berry (Londra, 1972) mostra la compostezza e la semplicità di una signora davanti alla una tazza di tè. Non sappiamo nulla della qualità delle sue foglie, di come lo ha versato in tazza, probabilmente sarà zuccherato come, secondo Orwell, usava fate la classe più popolare. Lei è lì seduta in un modesto locale, con la sua tazza di tè, immersa nei suoi pensieri, serena. Così distante geograficamente e socialmente, ma così vicina alla donna giapponese immersa nella cerimonia del tè, della foto di René Burri (1972). Entrambe vivono almeno una delle quindici gioie che il tè ha «insegnato» alla scrittrice nipponica Morishita Noriko per il suo longseller Ogni giorno è un buon giorno (Einaudi), tanti anni dopo Orwell. Che a settantuno anni dalla morte, trova – con la scadenza dei diritti sulle sue opere – una nuova effervescenza editoriale. Libero lui e i suoi testi, lo scrittore potrà ora godersi pienamente, la sua Buona tazza di tè, certo che «non tutti i tè sono uguali».

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