sabato 22 febbraio 2020
Il carrierismo è un qualcosa di particolarmente odioso di cui ritrovarsi a essere spettatori. E non parliamo di che cosa si provi a esserne vittime, direttamente o meno. Quello sgomitare continuo, spesso mellifluamente ammantato di cortesia, quella cortigianeria esasperata, che rende ossequiosi coi potenti e sprezzanti coi deboli, quel non guardare in faccia nessuno pur di ottenere di fare quel passo in più, strappare una lode... è la quintessenza di quel tipo di disumanità strisciante che può far male come e più di una coltellata. Il carrierismo è appunto tutto questo, ma se è sempre inqualificabile, quando a esserne Protagonista è un ecclesiastico diventa semplicemente intollerabile, perché la smania per la funzione mette in secondo piano il ministero, fino a nasconderlo o a ridurlo a una mera facciata.
Non è un caso che Benedetto XVI prima e poi Francesco abbiano spesso usato parole di fuoco per bollare come inaccettabile il carrierismo dei preti, e abbiamo in varie occasioni invitato a prestare particolare attenzione all'ammissione degli aspiranti sacerdoti e alla loro formazione. Proprio in questa chiave va vista la decisione di Papa Bergoglio di istituire un anno missionario propedeutico all'ingresso in servizio dei futuri nunzi apostolici, ossia il personale diplomatico della Santa Sede. In pratica gli aspiranti ambasciatori dovranno trascorrere dodici mesi in missione – Africa, Asia, America Latina – con l'obiettivo di «formarli allo zelo apostolico» – si legge nella lettera inviata da Francesco al presidente della pontificia Accademia ecclesiastica, monsignor Joseph Marino, per comunicargli la decisione – per andare nei territori di confine, al di fuori della propria diocesi di origine, con la certezza che «una tale esperienza potrà essere utile a tutti i giovani che si preparano o iniziano il servizio sacerdotale, ma in modo particolare a coloro che in futuro saranno chiamati a collaborare con i Rappresentanti Pontifici e, in seguito, potranno diventare a loro volta Inviati della Santa Sede».
Dodici anni fa, in un qualche discorso rivolto agli studenti dell'Accademia, Benedetto XVI aveva messo in evidenza come «dovrete essere pronti ad offrire non solo l'apporto della vostra esperienza diplomatica, ma anche, e soprattutto, la vostra testimonianza sacerdotale. Per questo, oltre la necessaria e doverosa preparazione giuridica, teologica e diplomatica, quel che più conta è che improntiate la vostra vita e la vostra attività ad un amore fedele a Cristo e alla Chiesa, che susciti in voi una accogliente premura pastorale verso tutti... Vostro compito sarà proprio quello di proclamare con il vostro modo di vivere, ancor prima che con le vostre parole, l'annuncio gioioso e consolante del Vangelo dell'amore in ambienti talora molto lontani dall'esperienza cristiana».
L'esperienza del nuovo anno missionario inizierà con i «nuovi alunni dell'anno accademico 2020/2021», scrive ancora Francesco, dicendosi sicuro che «superate le iniziali preoccupazioni, che potrebbero sorgere di fronte a questo nuovo stile di formazione», l'esperienza missionaria promossa «tornerà utile non soltanto ai giovani accademici, ma anche alle singole Chiese con cui questi collaboreranno». Con l'augurio, in tutto questo, che tale iniziativa possa far nascere «in altri sacerdoti della Chiesa universale il desiderio di rendersi disponibili a svolgere un periodo di servizio missionario fuori della propria Diocesi». Un auspicio, certamente. Ma, forse, anche un'indicazione molto precisa.
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