Tra Pascoli e Puškin la metrica virtuosa nella lirica di Giovanni Giudici
sabato 30 luglio 2011
L'ultimo numero dello "Straniero" propone un ricordo di Giovanni Giudici, da poco scomparso. Diventai amico di Giudici negli anni settanta, era appena uscito Il male dei creditori e recensendolo cominciavo a pensare che era uno dei maggiori poeti del secondo Novecento; cosa poi ampiamente confermata dai suoi libri successivi, Lume dei tuoi misteri, Salutz, Quanto spera di campare Giovanni, Empie stelle. Giudici cominciò come inventore di un proprio romanzo o autobiografia o autobiologia (un suo titolo) in versi. Era il solo vero erede e continuatore sia di Gozzano che di Saba. Un poeta "che parla", racconta, recita. Un poeta vocale e narrativo che mette in veri versi la lingua parlata. Il suo libro esemplare resta perciò, non solo a causa del titolo, La vita in versi (1965). Ma Giudici dimostrò di essere anche un lirico, oltre che un epico, straordinario. La sua perizia metrica spesso al limite del virtuosismo (imparò da Pascoli, tradusse l'Onieghin di Puškin), i suoi giochi verbali e salti lessicali, le sue escursioni dall'enigmatico al comunicativo, dall'onirico al cronistico, gli permettono di scrivere anche alcune fra le più belle poesie d'amore del Novecento.
Giudici scriveva per essere letto. La questione del pubblico della poesia è discussa in un breve saggio ripubblicato ora dallo "Straniero". Che cosa si intende per pubblico? La risposta di Giudici è sorprendente e difficile da dimenticare: il suo lettore ideale è «uno come me quando leggo Machado». Perché proprio il grande poeta spagnolo? Perché Antonio Machado «è uno dei tre o quattro poeti ai quali di tanto in tanto continuo a rivolgermi: con tutto lo scoramento che in certe sere mi spinge a prendere dallo scaffale l'ormai consunto volume delle Poesías completas, a cercare conforto nella limpidezza e nella musica del suo verso, a specchiarmi nella disarmata autenticità del suo sentimento». Per leggere Giudici, dunque, bisogna amare la tecnica del verso e non rifiutare l'idea di avere dei sentimenti.
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