martedì 21 febbraio 2006
Dire la cosa giusta al momento giusto, ma anche tacere la cosa sbagliata quando si è tentati di dirla. Un mio amico sta cercando su Internet una notizia storica e io osservo incuriosito i suoi tentativi. Egli ha impostato la ricerca sull'antica famiglia inglese dei Neville ma, per un errore, ecco emergere un detto attribuito a una non meglio nota scrittrice inglese, Dorothy Nevill (1826-1913): lo leggo anch'io e lo annoto perché merita un "Mattutino". In verità su questo tema siamo stati fin troppo generosi, correndo il rischio di essere ripetitivi. D'altronde, la parola è lo strumento principe della comunicazione e ha ragione s. Giacomo quando nella sua Lettera osserva che «se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche il corpo" La lingua, infatti, è un piccolo membro ma può vantarsi di grandi cose» (3, 2.5). Nella massima della Nevill vorrei sottolineare soprattutto la seconda parte. Certo, «dire la cosa giusta al momento giusto» è importante ed è una vera e propria arte, oltre che essere talvolta un'opera di carità. Ma frenare la lingua quando sta impazzando e si abbandona alla frenesia del dire, alla superficialità, alla vanagloria è forse ancor più rilevante. Perché, una volta detta, la parola sbagliata non è che muoia. No, comincia proprio allora a vivere e a fare danni. Il salmista fa questo proposito: «Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la lingua; porrò un freno alla mia bocca» (39, 2). Questo autocontrollo ci salverebbe da esiti infausti che creano odi, fanno crollare relazioni, riescono a ledere la nostra immagine, anche ingiustamente. L'ascoltare dovrebbe sempre essere superiore al parlare, «lasciandoci anche insegnare cose che già si sanno», come diceva il politico francese Talleyrand.
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