domenica 9 dicembre 2018
A casa mia, da bambina, su uno stipite venivano segnate con una tacca le stature di noi tre, un anno dopo l'altro. Io mi alzavo impercettibilmente sulle punte dei piedi quando mi misuravano, per sembrare più grande. Le tacche dei miei fratelli erano irraggiungibili, altissime. Accanto a ogni segno c'era una data. Le tacche di mia sorella maggiore arrivavano al 1967, e si interrompevano. Quando si cambiò la tappezzeria, mia madre salvò quella striscia di carta: l'ho trovata fra le sue cose quando è morta, e l'ho conservata.
A casa nostra il muro delle tacche è in cucina, sotto a un grande crocefisso di legno, dono di nozze. Segnare la statura dei bambini era un rito: guardavano i centimetri dell'anno prima e sorridevano, orgogliosi. Poi presero a misurare la statura dei gatti di casa. Tigre, Attila, Gelsomina, Malacoda: ci sono tutti, giù in basso. Il livello delle tacche dei ragazzi cresceva, finché i maschi mi superarono. (Strano, scoprii, alzare lo sguardo per parlare con un figlio).
Le tacche sono rimaste. Con l'imbianchino mi sono raccomandata di non cancellarle. Se ne stanno sul muro ingrigito, sotto al crocefisso in cucina. Certe sere mi ci si sofferma lo sguardo. Nelle braccia spalancate di Cristo i nomi dei figli, ripetuti un anno dopo l'altro, mi paiono protetti, e vegliati.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI