sabato 10 luglio 2021
«Nemo propheta in patria», ovvero nessuno è profeta nella propria patria. Quante volte l'abbiamo sentito, e quante volte l'abbiamo detto? Innumerevoli. Significa che per una persona è difficile farsi apprezzare negli ambienti in cui è cresciuto, famiglia, rione, città... È un modo di dire declinato in tutte le lingue e in tutti i dialetti, e la cosa più buffa è che la sua origine è ignorata dai più. Basta fare un giro su internet per rendersene conto: si trovano le cose più strampalate, dalle origini dialettali a qualche sito che sostiene perentoriamente (è il caso di almeno un paio di quei siti di aiuto scolastico) che la frase in questione è un «antico proverbio latino».
L'origine autentica, invece, sta nel Vangelo, e ce l'ha ricordato papa Francesco domenica scorsa all'Angelus, sottolineando «l'incredulità dei compaesani di Gesù. Egli, dopo aver predicato in altri villaggi della Galilea, ripassa da Nazaret, dove era cresciuto con Maria e Giuseppe; e, un sabato, si mette a insegnare nella sinagoga. Molti, ascoltandolo, si domandano: «Da dove gli viene tutta questa sapienza? Ma non è il figlio del falegname e di Maria, cioè dei nostri vicini di casa che conosciamo bene?». Davanti a questa reazione, Gesù afferma una verità che è entrata a far parte anche della sapienza popolare: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».
Perché tutto questo? I compaesani di Gesù, ha spiegato Bergoglio, «potremmo dire che conoscono Gesù, ma non lo riconoscono. C'è differenza tra conoscere e riconoscere. In effetti, questa differenza ci fa capire che possiamo conoscere varie cose di una persona, farci un'idea, affidarci a quello che ne dicono gli altri, magari ogni tanto incontrarla nel quartiere, ma tutto questo non basta. Si tratta di un conoscere direi ordinario, superficiale, che non riconosce l'unicità di quella persona». Inutile nasconderlo. È successo, e succede, a tutti quanti noi. «Ci facciamo un'idea» delle persone che ci sono vicine, e quell'idea si trasforma presto in pregiudizio. E se per caso quella persona – un vicino di casa, un compagno di scuola, anche un parente – si rivela essere qualcosa che non collima con il nostro pregiudizio, arriviamo perfino a negare l'evidenza. Non l'accettiamo, è qualcosa che esula dalla nostra capacità di comprendere.
Così, ha detto ancora Francesco, «finisce che spesso dalla vita, dalle esperienze e perfino dalle persone cerchiamo solo conferme alle nostre idee e ai nostri schemi, per non dover mai fare la fatica di cambiare». Lo stesso può succedere anche con Dio, «proprio a noi credenti, a noi che pensiamo di conoscere Gesù, di sapere già tanto di Lui e che ci basti ripetere le cose di sempre. E questo non basta, con Dio. Ma senza apertura alla novità e soprattutto – ascoltate bene – apertura alle sorprese di Dio, senza stupore, la fede diventa una litania stanca che lentamente si spegne e diventa un'abitudine, un'abitudine sociale. Ho detto una parola: lo stupore. Cos'è, lo stupore? Lo stupore è proprio quando succede l'incontro con Dio: "Ho incontrato il Signore". Leggiamo il Vangelo: tante volte, la gente che incontra Gesù e lo riconosce, sente lo stupore. E noi, con l'incontro con Dio, dobbiamo andare su questa via: sentire lo stupore. È come il certificato di garanzia che quell'incontro è vero, non è abitudinario». Dunque, impariamo a riconoscere sempre Dio.
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