sabato 16 gennaio 2021
Alla fine degli Sessanta dello scorso secolo lo psichiatra americano Thomas Harris pubblicò un libro intitolato Io sono ok, tu sei ok – Come risolvere al meglio il problema del rapporto con gli altri. Era un libretto con un taglio divulgativo nel quale l'autore, riprendendo le idee del suo maestro Eric Berne, il papà dell'analisi transazionale e della psicologia sociale, spiegava come nella vita ciascuno di noi si muova dal punto di vista relazionale e sociale come all'interno di un recinto diviso in quattro parti: «Io non sono ok, tu sei ok», «Io non sono ok, tu non sei ok», «Io sono ok, tu non sei ok», «Io sono ok, tu sei ok». Il senso dovrebbe essere immediatamente chiaro a chiunque: dove solo l'ultimo dei quattro stati rappresenta lo scambio reciprocamente positivo tra le persone, ed è quello a cui ognuno tende, oppure va riportato, visto che le altre tre sono condizioni patologiche. Come detto, parliamo degli anni Sessanta, non dell'era giurassica. Eppure, se ci pensiamo un attimo, sembra che si sia smarrita persino la nozione di quella naturale tendenza, a tutto vantaggio di una società dominata dal «io sono ok, tu non sei ok». Determinando lo sviluppo di una convivenza fatta dalla somma dei nostri egoismi personali.
Benedetto XVI, nel 2007, celebrando la Messa a Castelgandolfo, disse che «tutta la storia umana è una lotta tra due amori: l'amore di Dio fino al dono di sé e l'amore di sé fino al disprezzo di Dio, fino all'odio degli altri... Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l'egoismo, il divertimento. Questa è la vita». E noi sappiamo che davvero è così, e che forse, anzi, questo egoismo dominante s'è trasformato in qualcosa di peggio, ossia in un vero e proprio consegnare le regole della convivenza alla loro forma patologica. L'«io sono ok, tu sei ok» non è più riconosciuta come la condizione a cui tendere ma come un'anomalia, un ostacolo al nostro interesse. È questa purtroppo la tendenza oggi, e ciò, come ha chiesto papa Francesco in una recente intervista, richiede non distanza ma, al contrario, di essere «vicino ai problemi, vicino alle persone». Parlava della crisi creata dal Covid, ma non solo. Perché se da ogni crisi si può uscire «migliori o peggiori», per scongiurare l'andare a fondo «la parola chiave è "vicinanza"». Nella Chiesa, così come nella politica e in tutti gli ambiti, la classe dirigenziale «non ha diritto di dire "io"... deve dire "noi" e cercare una unità di fronte alla crisi. Un politico, un pastore, un cristiano, un cattolico anche un vescovo, un sacerdote, che non ha la capacità di dire "noi" invece di "io" non è all'altezza della situazione».
Passare dall'io al noi vuol dire, allora, tornare a pensare al plurale, a capire che il nostro interesse personale è che tutti stiano bene, che non ci si senta rivali ma fratelli. Capire che «amerai il prossimo tuo come te stesso» è non solo per i cristiani ma per tutti la vera chiave della convivenza. Dove il prossimo, come ha spiegato Bergoglio nel novembre 2018, «è la persona che io incontro nel cammino, nelle mie giornate». Farsi incontro, vicini, senza cercare scuse per evitarlo, per smarcarsi dicendo “questo è più grande di me”. Non ci sono scuse, perché «l'affamato ha bisogno non solo di un piatto di minestra, ma anche di un sorriso, di essere ascoltato». E, per chi crede, «anche di una preghiera, magari fatta insieme». Una preghiera non fa mai male, anche per rilanciare corrette relazioni sociali. Veramente umane.
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